«Tuttolibri» 7 dicembre 1985 Agli scrittori io dò la pagella Luciano Satta
«Tutto libri» 14 dicembre 1985
Polemica: il linguista Beccaria replica alle pagelle di Satta
E allora bocciamo Dante, Manzoni e tutti gli altri Gianluigi Beccaria
Nello scorso numero abbiamo pubblicato un’intervista a Luciano Satta e una «pagella» che gli avevamo chiesto con i voti sui libri da lui letti e annotati. Su questo tema interviene il professor Gianluigi Beccaria, ordinario di storia della lingua italiana all’Università di Torino e, da alcune settimane, consulente della rubrica «Parola mia» alla televisione.
Luciano Satta può farne ciò che vuole dei libri che compra o che gli mandano in omaggio, divertirsi come meglio gli pare. Non è che la sua matita blu o rossa cambi qualcosa. Il mare c’è chi lo tenta a bracciate nuotando, chi lo attraversa col favor dei venti, che ne saggia appena la temperatura col piedino, chi vi s’immerge soltanto sino alla cintola: ma nulla cambia, perché il mare è là, sempre lo stesso. E una montagna c’è chi la sa scalare, chi ci sale in funivia, chi ci arriva comodamente in elicottero, chi lungo impervi sentieri: ma la montagna resta sempre uguale a se stessa, imponente, grandiosa.
L’idea che un giornalista-linguista passi ad un setaccio a maglie strettissima gli scrittori italiani contemporanei per dividerli in due schiere, i buoni e i cattivi, i promossi e i bocciati, come si fa coi calciatori il lunedì, mi lascia del tutto indifferente. Anzi: mi dà un po’ di malinconia. Ciascun lettore ha la libertà di maneggiare i testi come crede. Anche quella di leggere un libro intero, un romanzo straordinario, e cavarsi la soddisfazione (assai magra) di trovarci due, tre errori di stampa. Può sconciare con rigacci pagine stupende, purchè il libro, proprietà personale, l’abbia regolarmente pagato; certo a Satta avrei qualche timore a prestare un mio volume, e le pubbliche biblioteche se ne guardino.
Quanto poi a rendere pubblici i risultati delle sue indagini, a pubblicare pagelle (cinque a Moravia, cinque più a Michele Prisco, cinque e mezzo a Italo Calvino, appena sufficiente Umberto Eco, bravissimo e primo della classe Daniele Del Giudice, con sette e mezzo), questo è un altro discorso. C’è una tradizione, lo so, di arguti puristi tutori dell’ordine, da Panzini, Pestelli, Fochi, Gabrielli, ed ora Satta, e Marchi, che nei loro gustosi interventi sui giornali hanno continuato ad osservare la lingua, a sottolinearne più che i movimenti, gli «errori», le deviazioni dalla norma.
Oggi poi tira aria di restaurazione. Da un po’ di tempo in qua si torna a parlare con qualche preoccupazione di problemi di lingua, dell’italiano che va a ramengo, che imbocca chine devianti. Cesare Marchi ha scritto un libro fortunato sul ritorno alle buone maniere.
Tira aria di revival, di bon ton, del si può o non si può! Si piange sulla morte del congiuntivo. Si vuol difendere la «buona lingua». Tornano le (inutili) crociate contro l’invadenza straniera. Battaglie perdute! Della nostra lingua c’è chi stende necrologi, chi invece più saggiamente indica nel cambiare segni di vitalità e non di patologia (e rimanda al dibattito accolto nell’ultimo fascicolo di «Sigma» ed al mio Italiano, lingua selvaggia?). Ma almeno si dibatte sull’italiano standard, sull’italiano comune, colloquiale, quello che usiamo tutti i giorni per le nostre necessità comunicative, scritte o parlate che siano. Satta invece va a caccia dell’«errore», applica il criterio del giusto-sbagliato alle pagine letterarie.
Dovremo d’ora in poi ritenere pessimo scrittore Manzoni per qualche voluto anacoluto («noi altre monache ci piace sentir le storie per minuto») o per il lui soggetto, condannare Dante ad espiare le sue pene in Purgatorio per i suoi idiotismi, i forti latinismi e le voci forestiere adoperate nella Commedia, bruciare sulla pubblica piazza gli scritti di Gadda, porre all’indice Verga per la sua sintassi pensata in dialetto, rimandare Pavese, metter nel banco dell’asino Beppe Fenoglio, appioppare a Montale un bel quattro perché pronunciava alla greca lo zàffiro, punire ancora Montale e Daniello Bartoli per i loro insieme invece del più corretto insieme con, Boccaccio, Goldoni, e ancora Manzoni e Pavese per i loro che polivalenti, guardarci da Pea per il suo vernacolo, cacciare dalle pubbliche scuole gli «scapigliati», come Dossi o Faldella, far prendere qualche lezione privata a Pirandello per quel po’ di sintassi troppo parlata.
Insomma, Satta si diverte, se ne infischia dello stile e della libertà stilistica degli scrittori, di quanto insomma segna la peculiarità, l’inventiva, la forza appunto della scrittura. È ovvio che gli scrittori possono infischiarsene delle sue pagelle. Ed anche coloro che vogliono apprendere l’italiano. È certo che lo s’impara anche o soprattutto leggendo romanzi. Ma non è dagli scrittori che s’apprendono le «regole» del parlare e dello scrivere corretto. Il grande prosatore ti insegna altre cose: che il maneggio della lingua è libertà, che la libertà linguistica non è anarchia, e poi le possibilità incessanti di molti compensatori, di acidi corrosivi, di contravveleni, di colori intensi di fronte ad ogni «grigiore», di fronte alla semplificazione, alla standardizzazione, alla frase fatta.
leggo la cronaca del premio Fiuggi. Tra i premiati anche Prisco. Nulla da obiettare se proprio due giorni orsono, non avessi letto, nel Giornale, l’articolo in cui, con matita blu, venivano segnati gli «errori» della penna di Prisco. Sono in commissione di maturità magistrale. Se uno dei miei candidati nel suo componimento «in italiano» avesse buttato giù uno di questi errori, la commissione, di cui faccio parte, non avrebbe elogiato tale candidato ed il segno blu avrebbe avuto il suo peso nella valutazione dell’elaborato.
Ma se fosse stato, tra noi commissari, l’on. Andreotti questo candidato sarebbe stato elogiato. Come ha elogiato Michele Prisco.
«Il Mattino» 13 ottobre 1986 Montale, dica lei: la giusta distanza Luigi Compagnone
Illustre Eugenio Montale, è stato con antica emozione che venerdì ho letto sul «Corriere della sera» quattro di quelle sue poesie inedite, o segrete, che la signora Annalisa Cima ha fatto stampare in cento copie fuori commercio dall’«Officina Bodoni». Nel parlare della frequentazione avuta con lei, Annalisa Cima ha detto tra l’altro che «Montale insisteva affinché io gli dessi del tu, ma io continuai sempre a dargli del lei e credo che in fondo quel “lei” non gli dispiacesse: Montale amava tenere una certa distanza tra sé e gli altri».
A questo punto vorrei chiederle perché, secondo lei, tale salutare distanza vada sempre decadendo e perché ci diamo tutti del tu. Forse per adeguarci allo you anglosassone?
«Non mi pare. Non credo dipenda dall’irresistibile fascino che promana dal presidente Reagan e dalla signora Thatcher».
Dipende allora dalla TV?
«Certo, in televisione il tu è ormai una prammatica sanzione che affratella gli illustri e i meschini, i grandi e i piccoli, i divi e i comprimari, le stelle e le vallette, i demiurgi del teleschermo e il pubblico telefonante. Vi si respira un’aria casereccia, di salotto, di tinello, di cucina, un’aria che frantuma le distanze tra i cosiddetti grandi nomi e quelli il cui nome non fa storia. Insomma si è alla pari.»
È quindi il trionfo del Confidenziale e del Democratico?
«è il trionfo del Falso Confidenziale e del Falso Democratico, ossia della strategia che offre alle masse l’illusione di un ottimo rapporto tra i sùperi e gli inferi.»
Montale, le pongo un’attonita domanda il tu televisivo è una conquista derivata dal costume generale o è la TV che condiziona il costume?
«Le potrei dare una risposta rassicurante: è l’Italia che è cambiata ma le direi il falso».
Negli anni Trenta, l’Italia minacciava di cambiare col passaggio forzato dal lei al voi. Fra i tanti «Fogli di Disposizione» redatti personalmente da Sua Eccellenza Achille Starace, uno in data 19 agosto 1938 -XVII ammoniva seccamente «è assurdo e riprovevole che dopo quanto è stato detto e scritto, si stenti ancora ad adottare il voi e a respingere nettamente il lei che oltretutto è un’espressione di quello spirito servile ripudiato dal Fascismo nella maniera più recisa. I Segretari Federali li segnalino se nelle province qualche cosiddetta personalità, magari per darsi un tono, presumesse di offrire delle resistenze o di fare dello spirito…» Che ne pensa, Montale?
«Non m’induca a goffe malinconie»
Nello stesso tempo il Minculpop apriva un’inchiesta tra gli scrittori italiani: «Preferite il voi o il lei?»
«Sì, ricordo. Elio Vittorini rispose di preferire il tu. Non fu una risposta evasiva, in quei tempi, il tu significava molte cose».
E oggi che significa?
«Significa che, a furia di essere adoperato nel modo più indiscriminato, è stato svuotato di ogni significato»
Mi scusi la petulanza quando pensa che sia nato?
«Non lo so. Forse nel Sessantotto quando i professori dissero ai ragazzi di parlarsi con il tu. Ma non era ancora un tu consumistico.
Oggi i nostri ragazzoni danno del tu agli anziani. La ritiene una mancanza di rispetto?
«Io, se rispetto una persona, le do del lei»
Ma il tu non facilita i rapporti?
«No, perché è un nuovo conformismo»
Nell’ultimo romanzo di Michele Prisco «Specchio cieco» un personaggio dice ad un altro che ha appena conosciuto «Perché non ci diamo del tu?» E l’altro gli risponde «Ma certamente, dato che non ci conosciamo abbastanza da darci del lei».
È d’accordo con Prisco?
«D’accordissimo con Prisco»
Torniamo agli anziani. Molti di loro esigono il tu dai giovani e i giovani viceversa. E il rispetto per i capelli bianchi?
«Tra le sciagure della civiltà di massa, come ha ben scritto Elemire Zolla, c’è l’abolizione della differenza tra gioventù e vecchiaia. Lei capisce: il tu dà l’esaltazione della giovinezza, nel miserabile tentativo di offrire a tutti il lustro della gagliardia e la cera raggiante: la offre perfino ai cadaveri negli Stati Uniti, quando vengono esposti nelle Funeral Homes»
Ma allora il tu non è un simbolo da accettare in positivo.
«Proprio no: perché se ne fa un uso troppo facile e volgare e provo di qualunque sacralità.»
«La Repubblica» 15 gennaio 1985 Lo scrittore e Margherita Stefano Giovanardi
C’è un personaggio che, neanche tanto furtivamente, si aggira per la narrativa italiana più recente. Possano differire i tratti somatici, le alterazioni con cui è messo a confronto, il destino che gli è riservato; ma resta fissa una sua qualità, una condizione tra il professionale e l’esistenziale: si tratta dello “scrittore-in-crisi”. Parecchi romanzi, tra gli ultimi usciti, lo hanno eletto addirittura a protagonista, riservando ai problemi che riguardano la creazione letteraria (o meglio, il suo inquietante inaridirsi) un posto di assoluta preminenza nella scala di “messaggi” loro propria.
Inutile dire che di fronte a tanta fioritura si è subito tentatati di procedere a una sommaria identificazione tra l’autore e il personaggio, per intravedervi l’ennesimo “escamotage” di una narrativa che, non avendo più nulla da esprimere, finisce col raccontare nient’altro che questa sua incapacità, e intanto mette nel carniere un altro romanzo aspettando tempi migliori. Ma sarebbe una generalizzazione abbastanza arbitraria, poiché talvolta quella specie di foto con autoscatto riesce a farsi metafora di una difficoltà ben più ampia e grave, di una inabilità a “capire” che può essere storia di tutti, e non solo del singolo scrittore “inaridito”.
“Lo specchio cieco” di Michele Prisco (Rizzoli, pagg. 245, lire 18.000) è, in questo senso, assai significativo. Il protagonista Matteo è appunto uno scrittore sufficientemente famoso, il quale da tempo non riesce più a scrivere, e si trascina piuttosto abulico in una condizione infelice che nemmeno la trepida protezione della moglie riesce a lenire. A scuoterlo dal torpore intellettuale giunge però propizio l’incontro casuale con una donna che egli aveva conosciuto a San Severino, suo paese d’origine (donna giovane, sposata in seconde nozze da Gerardo Attanasio, padre di un caro amico d’infanzia di Matteo).
Ciò che lo colpisce è il radicale mutamento subito dalla donna, di nome Margherita, nei pochi anni trascorsi dall’ultima volta che l’aveva vista: tanto allora era schiva, dimessa, schiacciata in un ruolo molto vicino a quello della serva, quanto ora è brillante, sicura di sé. Matteo capisce al volo che il destino gli ha offerto un’occasione per tornare a scrivere, e si lancia con rinnovato entusiasmo in una ricerca, a metà fra il tuffo nel passato e l’investigazione, che gli possa permettere di tradurre in romanzo la storia di lei.
Ma quale storia? Già, proprio questo è il problema. In quanto romanziere, Matteo dovrebbe poter “capire” fino in fondo i personaggi che dispone sulla pagina (è o no “onnisciente” il narratore?); si accorge però ben presto che qualsiasi particolare si aggiunga alla sua conoscenza della donna, qualsiasi chiave apparentemente in grado di chiarire il mistero di quella trasformazione, si rivela passibile di svariate interpretazioni, lasciando nella più densa ambiguità situazioni e moventi. C’è una Margherita-Cenerentola, violentata e schiavizzata da Gerardo, disprezzata dai rampolli di lui, ferita e calpestata anche da chi inizialmente sembrava volerle bene: e c’è una Margherita-Lola Lola, che si fa sposare fingendo una gravidanza, assiste senza lacrime alla morte del marito durante un coito, si appropria di un terzo della sua eredità e fa innamorare di sé ambedue i figli del defunto.
Il progetto di Matteo rischia lo scacco: non comprendere il suo personaggio significa non potergli attribuire un destino, rinunciando a portare a compimento la faticosa parabola di cui tuttavia egli avverte l’esistenza dietro quelle vicende tanto aggrovigliate; e il manoscritto che ne ha cavato gli rimanda solo immagini confuse, baluginii senza nessi, profili lacunosi: uno “specchio cieco”, appunto, capace di riflettere solo la disperante inafferrabilità del mondo. Fin qui Matteo. Ma mi accorgo ora di aver trascurato per troppo tempo Prisco. Là dove Matteo ha fallito, infatti, Prisco evidentemente è riuscito, visto che il romanzo ce l’ho qui davanti.
Come ha potuto farcela? Semplice: il suo personaggio è Matteo, non Margherita; e a lui Prisco ha regalato da subito un destino irrevocabile, che è appunto quello di non capire, o di contentarsi di pseudo-soluzioni del tutto fuori centro, come la spiegazione finale che vorrebbe risolvere il mistero di Margherita in chiave sociologica, quasi si trattasse di una graduale e “femministica” presa di coscienza dei suoi diritti di donna: una spiegazione che non spiega nulla, e lascia intatte le tenebre sul “caso” che lei rappresenta, ossia su quella invincibile e onnivora duplicità.
Insomma: il finale sbagliato del romanzo di Matteo è invece il finale giusto per il romanzo di Prisco; suggella infatti con coerenza la lunga marcia nel buio del protagonista e nello stesso tempo segna una distanza decisiva tra autore e personaggio, impedendo qualsiasi identificazione: se Matteo non capisce nulla, è perché Prisco ha deciso fin dalla prima pagina di non fargli capire nulla, e su quella strada lo ha guidato con mano di ferro. Altro che scrittore-in-crisi…
«Il Giornale», 2 dicembre 1984, Fantasmi dietro lo “Specchio”Geno Pampaloni
Che significa “quasi lentamente”? Non sembra un’espressione felice ma anche se dovesse cadere sotto la ferula del nostro severo professor Satta, io sarei pronto a giustificarla. Anni infatti Prisco si accinge e arrivo vocare l’ultimo incontro del suo protagonista Matteo con la madre dell’amico Alberto, ormai malata in poltrona e presaga della prossima fine, e scrive: “voi mi avvicinai a lei quasi lentamente”, di quel “quasi” aveva bisogno; voi per tenere più lunga la nota della lentezza , e accentuare l’atmosfera di languore di estenuazione, di appuntamento con i lemuri o i fantasmi, da cui riemerge nella memoria di Matteo la casa degli Attanasio luogo mitico dell’infanzia e del paese del Sud ove egli era cresciuto e che ora ritrova dopo una lunga assenza.
Tutto il primo capitolo, che forse è il più bello, (il viale dei lecci che porta alla villa l’edera che ne ricopre il muro di cinta, l’esuberante vitalba che sale a nasconderla) vive di queste risonanze struggenti, di favola misteriosa senza un perché, di echi attutiti e pure inquietanti, di segreti che insinuano oscure premonizioni e una lunga stanchezza. E del resto Prisco è scrittore da prendere, per così dire, a scatola chiusa. Riesce a scrivere “insondabili recessi della mia intimità”, “fatti alonati da una loro sottile ambiguità”, “la penombra ci avvolgeva come un sudario”, senza che simili consunte monete linguistiche, che ad altri non perdoneremmo, arrivino ad urtarci; perché nella sua scrittura pacata e avvolgente, lenta e felpata adagio ininterrotto e irreprensibile esercizio di buone maniere, anche la banalità finisce con il risolversi in una forma di conoscenza artistica.
Ma veniamo alle “dramatis personae” di questo che a me sembra uno dei romanzi meglio riusciti di Prisco, e gli ambigui, labirintici, polialienanti rapporti tra di esse. In principio era Gerardo Attanasio, accorto e ricco mercante di legname: grosso, forte, autoritario, ma anche boffice, biancastro e come minato, al di là dei gagliardi appetiti, da un’intima insicurezza vitale. Direi che è Gerardo l’invenzione portante del romanzo; da morto come da vivo è una centrale di ambiguità, un irrigatore di disagio morale; un personaggio verghiano corroso, smangiato dalle complicazioni e dalle menzogne del vivere d’oggi. Accanto a lui la moglie Eleonora: schietta, colta, affascinante, ma in definitiva succube di quel marito. C’è poi Margherita, giovane parente povera, ragazza sbiadita impacciata della sua stessa rassegnazione; viene in casa quasi per serva, Gerardo le fa violenza (da padrone) ma pochi mesi dopo la morte della moglie la sposa. Poi ci sono i due figli, Biagino, voglioso e rozzo, e Alberto, sensibile e malinconico, ma vattene nel profondo dalla volgarità del padre fedele alla memoria della madre. E infine Matteo, scrittore affermato anche se da qualche tempo in crisi (tralascio per brevità i rapporti con la moglie Elena, un altro capitolo d’affetti, reticenze, generosità, incomprensioni). Matteo è nato e cresciuto nello stesso paese , e in casa Attanasio ha preso coscienza di se stesso e del “suo” meridione; l’”odore Attanasio” è per lui la madeleine voi dell’infanzia, una nostalgia segreta e tormentosa e insieme il terminus a quo voi della propria supposta liberazione di intellettuale moderno.
Il punto di svolta si ha quando, la morte di Gerardo, si apprende no che gli ha lasciato a Margherita un terzo dell’eredità, ivi compresa la fruttuosa azienda di legnami. Margherita diviene un’altra donna; dalla crisalide dai colori spenti esce una farfalla che si è spogliata del tutto della timidezza provinciale, vita della moderna borghesia e nella mondanità: elegante, disinvolta, sicura di sè anche nelle pubbliche relazioni. Matteo, quando la incontra a una mostra d’arte, stenta a riconoscerla. E. da scrittore, e irresistibilmente attratto dal desiderio di svelare motivi storia di quella incredibili trasformazioni , che sembra porlo di fronte a “uno specchio cieco”, “1 uno specchio e non rimanda se non incognite, simulacri, fantasmi”; e che rimette in discussione il senso stesso del suo proprio passato.
Il romanzo è il romanzo di questo romanzo in fieri. E si snoda, attraverso un sapiente andirivieni nel tempo, in una serie di colloqui-rivelazione, alcuni dei quali (il più riuscito è quello tra Matteo e Margherita nel saloncino romano di Babington) risultano pezzi di grande bravura.
Un segno, una spia della felice ispirazione dello specchio cieco è il motivo olfattivo. a partire dalla mitica vitalba di casa Attanasio tiene quasi sempre bordone al racconto qualche finestra da cui arrivano profumi di camelie, odori di campagna e di mosto, il fiato del fiume, il vento autunnale caldo e umido che accatasta le foglie, l’odore appiccicoso del caprifoglio, il rumore della risacca sull arenile ingombro di rifiuti, i funghi “dall’odore del legno nuovo che non ha fatto in tempo a stagionare”, il sentore di mele che ristagna nella camera di Margherita (prima maniera)…; e persino morti hanno qui “un odore dolciastro di cannella”. Al di là della suggestione proustiana, questa insistenza olfattiva risponde a una precisa intenzione: l’intreccio dei sentimenti torbidi, delle reticenze e degli inganni ha un misterioso riscontro nel trascorrere, nella natura, dall’esuberanza vitale nell’estenuazione nel macerato e nel putrido. Ogni odore che arriva dall’esterno porta con sé un oscuro avvertimento, un’allusione indistinta, un allarme.
La conclusione mi sembra di comodo, sociologica, ed è per me diluitiva. Tutta la storia di Margherita non sarebbe che un episodio del riscatto sociale del Sud, “una nuova maniera di confronto! nel rapporto (delle donne) con il mondo maschile”. Ma Prisco non se la prenda più che tanto della mia delusione. Non di rado nei romanzi anche più celebri, a cominciare dai promessi sposi, “il sugo di tutta la storia” non è certo il meglio.