«Avanti» 19 luglio 1985 Una polemica da scrittore a scrittore Pasquale Sabbatino
Anche questa volta, nel suo ultimo romanzo, Lo specchio cieco, (Milano, Rizzoli, 1985), Michele Prisco fornisce due preziosissime informazioni, in forma di citazione, ai lettori desiderosi di compiere l’avvincente viaggio nel testo narrativo. Si cita da Proust (“voi potete raccontare tutto, ma a una condizione che non diciate mai ‘io’”) e dai fratelli Goncourt (“non si scrive il libro che si vuole”), avvertendo i viaggiatori lettori, ad apertura, di quello che, dapprima gradualmente e poi sempre più consistentemente, durante lo snodarsi della trama, sarà definitivamente chiaro a chiusura del viaggio letterario. La citazione di Proust invita a guardare all’io narrante (Matteo) e alle sue peripezie narrative pur di “raccontare tutto” su Margherita Attanasio gioca a nascondino. Nasconde l’io narrante dietro gli altri personaggi, i quali, più che essere narrati da Matteo nell’intreccio delle loro storie individuali con quella di Margherita Attanasio, narrano a Matteo i segmenti delle loro storie, laddove sono secanti o tangenti rispetto a quella di Margherita. L’abilità dell’io narrante si manifesta nel nascondersi, quando vuole e come vuole, dietro chi vuole, sfruttando a proprio capriccio gli spezzoni dei singoli racconti, accuratamente collezionati e collazionati, ora accostati lungo addentellati, ora giustapposti grazie a evidenti parallelismi, ora posti in sequenze ravvicinate e quindi rivelatrici di indizi.
La metamorfosi più accattivante si ha nella rivelazione iniziale dell’io narrante come io scrivente (“Prima di cominciare a scrivere la sua storia dovrei chiedermi più esattamente, qual è la vera storia di Margherita Attanasio”, p. 9).
Il personaggio Matteo, che è l’io narrante, di professione fa lo scrittore, per cui l’atto del narrare la storia di Margherita Attanasio, la quale storia ha dei raccordi con la propria storia, per cui nella storia di Margherita è un personaggio si risolve nell’atto di scrittura di quella storia. La situazione, allora, è scopertamente pirandelliana. Lo scrittore personaggio Matteo è alla ricerca dei suoi personaggi e questa ricerca gli permette di superare una crisi di scrittura e i personaggi sono in cerca di Matteo autore. E a Pirandello si riallaccia la narrativa dei maggiori scrittori napoletani (Prisco e Rea), per suggestioni, motivi, tecniche e, fondamentalmente, per l’umorismo,
la storia di Margheria Attanaio appare a Matteo divisa in due da “una specie d’insondabile spartiacque”, la morte del marito Gerardo. Nel primo periodo Margherita Attanasio “orfana dei genitori”, aveva vissuto a Lancusi presso alcuni parenti, appare dapprima come donna scialba (“spenta donnetta”, “sottomessa e inespressiva”) e collaboratrice domestica in casa Attanasio, e poi, alla morte di Eleonora, la prima signora Attanasio, come donna che vive passivamente i rapporti sessuali con Gerardo, “uomo rozzo”, fino poi a sposarlo per un “allarme” risultato “falso” (la gravidanza). Anche durante i “non molti anni del suo matrimonio con Gerardo Attanasio”, Margherita, elevatasi da collaboratrice domestica a “seconda signora Attanasio”, vive molto piattamente il rapporto con il marito “padrone”, che la considera come “una serva buona solo a letto”.
La trasformazione di Margherita in un’altra donna risale alla morte di Gerardo. E di questa trasformazione l’io scrivente vuol conoscere “i momenti e i moventi”.
Nell’intreccio della storia Margherita si annoda anche la vicenda di Matteo. Lo scrittore personaggio non pubblica oramai da tempo e il suo “mondo narrativo” è “come impoverito dentro e, peggio, svuotato”. Per di più la televisione, il piccolo schermo, catapulta sin dentro le case la “realtà esterna”, divenuta ormai “così violentemente prevaricante e preponderante che ci si chiede, mi chiedo a volta se non abbia essa soltanto diritto a esistere in altre parole, se oggi mette ancora conto scrivere e di che – A questo si aggiunga il processo d’involgarimento sempre più persuasivo, intorno a non una dispersione e distrazione del destinatario, per così dire, un generale disagio e senso di precarietà”. Qui Matteo la sa lunga e a Matteo Prisco affida alcune sue annotazioni sulla narrativa e il suo discorso scivola volutamente, ma per poi rialzarsi, sul sociologico. La crisi di Matteo è, dunque, la crisi dello scrittore d’oggi, e non certo, però, di “quei colleghi che senza problemi, buoni forse soltanto a frastornare, hanno ogni paio d’anni se non prima pronta una “novità” da lanciare sul mercato”. E qui da sociologico il discorso diviene polemico verso gli scrittori sollecitati dal mercato più che dai problemi. Infine è personale” i miei romanzi sono ogni volta scaturiti da una urgenza interiore, hanno ogni volta obbedito a una specie di richiamo emotivo (…) e, in definitiva, ho sempre avuto bisogno, prima, di credere, Ehi che per un narratore ritengo resti ancora condizione primaria”. Si ribadiscono, così, le ragioni narrative di Matteo e di Prisco.
Se nel romanzo l’immagine dello “specchio cieco” rappresenta la crisi dello scrittore, il vacillante e precario rapporto tra lo scrittore e la realtà il romanzo invece ci dà, come in uno specchio che vede , i lineamenti di uno scrittore che, ricomponendo le sue ragioni narrative, rivela di avere delle forme perfette. E si faccia soprattutto attenzione alla forma della scrittura, piacevole e sempre seducente, di uno scrittore che è sempre molto fine.
«La voce della provincia» 27 settembre 1985 Una vita per la cultura Federico Orsini
Il premio Fiuggi ti è stato assegnato per il complesso della tua opera di narratore. Quanta parte di Torre c’è in questo successo?
«Quanta parte di Torre?…Direi la mia vita. La motivazione del Premio Fiuggi è «una vita per la cultura». Io ho cominciato da Torre, da qui sono poi andato via, ma sono legato alla mia città. Direi che comunque Torre intesa nel senso più largo, non vorrei dire ancora una volta di “Provincia addormentata” (titolo del mio primo libro), ma di mondo di provincia sociale, è stata al centro dei miei interessi. Sotto questo aspetto, credo di essere stato un narratore molto coerente e molto fedele ai suoi temi iniziali».
Che cosa è lo «specchio cieco» e come collochi quest’ultimo libro nel tuo iter artistico?
«Letteralmente lo ” specchio cieco” e quello che non rimanda le immagini che vi si riflettono. Metaforicamente e simbolicamente vuol significare la difficoltà, se non proprio l’impossibilità, oggi per un narratore di rappresentare la vita attraverso la letteratura, di poter fermare sulla pagina la vita che è così fluida, contraddittoria e contrastante. Quale posto gli darei nella mia produzione? È il mio dodicesimo libro, nasce tutto sommato dagli altri, dai precedenti, anche se offre un’apertura nuova. Intanto nel personaggio della protagonista, Margherita Attanasio, ho cercato di presentare un tipo nuovo di donna quale oggi va emergendo nella società del Sud, consapevole dei propri diritti e decisa ad affermarlo. Questo sia detto senza una punta di femminismo che non c’è nel libro. E poi questa volta a raccontare la storia di Margherita è uno scrittore in crisi, che non è un personaggio autobiografico, ma che comunque mi ha dato la possibilità di giostrare su due piani narrativi».
Potresti fare un bilancio della tua vita di scrittore da “la provincia addormentata” allo “specchio cieco”?
«I bilanci sono malinconici e poi sono anche difficili soprattutto nel caso di uno scrittore che dovrebbe farsi critico di se stesso. Considerando “la provincia addormentata” che è del 49 per arrivare a “specchio cieco” che è del novembre 84 (12 libri in 36 anni di attività), credo di essere rimasto fedele ai miei temi che ho cercato di approfondire di volta in volta. Soprattutto direi che sono stato fedele ad un tipo di narrativa, di letteratura e ad una immagine di scrittore che ha cercato sempre virgola e fortunatamente c’è riuscito, di fare a meno delle mode, delle parole d’ordine estetico del momento, delle imposizioni. Questa ritengo sia una mia connotazione umana prima ancora che letteraria».
A quale dei tuoi romanzi sei più affezionato?
«Difficile dirlo, sai i libri sono i figli di carta per un autore. Sino a qualche anno addietro le mie simpatie andavano a “figli difficili” perché lì c’è il ritratto di una generazione che è stata la mia, cioè quella dei giovani che avevano vent’anni al momento della guerra. “I cieli della sera” è un libro al quale sono molto legato anche perché mi sembra che meglio riesca a fondere mondo intenzionale e mondo espressivo. Naturalmente c’è quest’ultimo che è un libro particolare perché è stato attraversato da una vicenda mia, molto intima, personale ed è venuto fuori virgola dopo una lunga interruzione, con molto dolore direi da parte mia. Non perché sia l’ultimo ma appunto perché è stato il più sofferto, è forse quello che amo di più».
Veniamo al premio Oplonti, siamo alla quarta edizione, se dovessimo fare un bilancio?
«Mi sembra assolutamente positivo nel senso che questo “piccolo” premio, che nasce da un circolo privato con una “piccola” giuria cioè una giuria molto ristretta, si è subito creato un suo spazio. Premi in Italia veramente sono tanti ma l’Oplonti ha questa caratteristica: premia uno scrittore per il complesso della sua carriera (Oplonti d’oro) ed un’altro all’opera prima (Oplonti d’argento). In questo accostamento di un autore della maturità ad uno degli esordi questo premio non solo esprime la sua fiducia direi nella narrativa italiana, ma ha anche una struttura tale che gli consente di attribuire i riconoscimenti con assoluta serenità, per chi non si concorre, non si partecipa e quindi la giuria opera in perfetta libertà di giudizio»
C’è però qualche critica da più parti sul mancato rinnovamento del premio Oplonti, nell’organizzazione e soprattutto nella giuria che è sempre la stessa.
«Così come hai strutturato il premio si potrebbe allargare o cambiare ma direi che appunto la composizione di una giuria ristretta consente una maggiore autonomia ed una maggiore libertà di scelta. Quanto all’organizzazione, io vengo qui direi al momento della premiazione, tutto è molto bello: ci sono le luci le toilettes, tantissimi fiori, il pubblico ed è per tutto ciò che io forse vedo solo gli aspetti positivi di questa manifestazione».
Che cosa ci stai preparando?
«Niente. Quando esco dalla stesura di un libro mi ci vuole un anno per riprendermi. L’ultimo però è stato un libro particolare per cui forse la ripresa sarà più lenta».
«Il Giornale», 2 dicembre 1984, Fantasmi dietro lo “Specchio”Geno Pampaloni
Che significa “quasi lentamente”? Non sembra un’espressione felice ma anche se dovesse cadere sotto la ferula del nostro severo professor Satta, io sarei pronto a giustificarla. Anni infatti Prisco si accinge e arrivo vocare l’ultimo incontro del suo protagonista Matteo con la madre dell’amico Alberto, ormai malata in poltrona e presaga della prossima fine, e scrive: “voi mi avvicinai a lei quasi lentamente”, di quel “quasi” aveva bisogno; voi per tenere più lunga la nota della lentezza , e accentuare l’atmosfera di languore di estenuazione, di appuntamento con i lemuri o i fantasmi, da cui riemerge nella memoria di Matteo la casa degli Attanasio luogo mitico dell’infanzia e del paese del Sud ove egli era cresciuto e che ora ritrova dopo una lunga assenza.
Tutto il primo capitolo, che forse è il più bello, (il viale dei lecci che porta alla villa l’edera che ne ricopre il muro di cinta, l’esuberante vitalba che sale a nasconderla) vive di queste risonanze struggenti, di favola misteriosa senza un perché, di echi attutiti e pure inquietanti, di segreti che insinuano oscure premonizioni e una lunga stanchezza. E del resto Prisco è scrittore da prendere, per così dire, a scatola chiusa. Riesce a scrivere “insondabili recessi della mia intimità”, “fatti alonati da una loro sottile ambiguità”, “la penombra ci avvolgeva come un sudario”, senza che simili consunte monete linguistiche, che ad altri non perdoneremmo, arrivino ad urtarci; perché nella sua scrittura pacata e avvolgente, lenta e felpata adagio ininterrotto e irreprensibile esercizio di buone maniere, anche la banalità finisce con il risolversi in una forma di conoscenza artistica.
Ma veniamo alle “dramatis personae” di questo che a me sembra uno dei romanzi meglio riusciti di Prisco, e gli ambigui, labirintici, polialienanti rapporti tra di esse. In principio era Gerardo Attanasio, accorto e ricco mercante di legname: grosso, forte, autoritario, ma anche boffice, biancastro e come minato, al di là dei gagliardi appetiti, da un’intima insicurezza vitale. Direi che è Gerardo l’invenzione portante del romanzo; da morto come da vivo è una centrale di ambiguità, un irrigatore di disagio morale; un personaggio verghiano corroso, smangiato dalle complicazioni e dalle menzogne del vivere d’oggi. Accanto a lui la moglie Eleonora: schietta, colta, affascinante, ma in definitiva succube di quel marito. C’è poi Margherita, giovane parente povera, ragazza sbiadita impacciata della sua stessa rassegnazione; viene in casa quasi per serva, Gerardo le fa violenza (da padrone) ma pochi mesi dopo la morte della moglie la sposa. Poi ci sono i due figli, Biagino, voglioso e rozzo, e Alberto, sensibile e malinconico, ma vattene nel profondo dalla volgarità del padre fedele alla memoria della madre. E infine Matteo, scrittore affermato anche se da qualche tempo in crisi (tralascio per brevità i rapporti con la moglie Elena, un altro capitolo d’affetti, reticenze, generosità, incomprensioni). Matteo è nato e cresciuto nello stesso paese , e in casa Attanasio ha preso coscienza di se stesso e del “suo” meridione; l’”odore Attanasio” è per lui la madeleine voi dell’infanzia, una nostalgia segreta e tormentosa e insieme il terminus a quo voi della propria supposta liberazione di intellettuale moderno.
Il punto di svolta si ha quando, la morte di Gerardo, si apprende no che gli ha lasciato a Margherita un terzo dell’eredità, ivi compresa la fruttuosa azienda di legnami. Margherita diviene un’altra donna; dalla crisalide dai colori spenti esce una farfalla che si è spogliata del tutto della timidezza provinciale, vita della moderna borghesia e nella mondanità: elegante, disinvolta, sicura di sè anche nelle pubbliche relazioni. Matteo, quando la incontra a una mostra d’arte, stenta a riconoscerla. E. da scrittore, e irresistibilmente attratto dal desiderio di svelare motivi storia di quella incredibili trasformazioni , che sembra porlo di fronte a “uno specchio cieco”, “1 uno specchio e non rimanda se non incognite, simulacri, fantasmi”; e che rimette in discussione il senso stesso del suo proprio passato.
Il romanzo è il romanzo di questo romanzo in fieri. E si snoda, attraverso un sapiente andirivieni nel tempo, in una serie di colloqui-rivelazione, alcuni dei quali (il più riuscito è quello tra Matteo e Margherita nel saloncino romano di Babington) risultano pezzi di grande bravura.
Un segno, una spia della felice ispirazione dello specchio cieco è il motivo olfattivo. a partire dalla mitica vitalba di casa Attanasio tiene quasi sempre bordone al racconto qualche finestra da cui arrivano profumi di camelie, odori di campagna e di mosto, il fiato del fiume, il vento autunnale caldo e umido che accatasta le foglie, l’odore appiccicoso del caprifoglio, il rumore della risacca sull arenile ingombro di rifiuti, i funghi “dall’odore del legno nuovo che non ha fatto in tempo a stagionare”, il sentore di mele che ristagna nella camera di Margherita (prima maniera)…; e persino morti hanno qui “un odore dolciastro di cannella”. Al di là della suggestione proustiana, questa insistenza olfattiva risponde a una precisa intenzione: l’intreccio dei sentimenti torbidi, delle reticenze e degli inganni ha un misterioso riscontro nel trascorrere, nella natura, dall’esuberanza vitale nell’estenuazione nel macerato e nel putrido. Ogni odore che arriva dall’esterno porta con sé un oscuro avvertimento, un’allusione indistinta, un allarme.
La conclusione mi sembra di comodo, sociologica, ed è per me diluitiva. Tutta la storia di Margherita non sarebbe che un episodio del riscatto sociale del Sud, “una nuova maniera di confronto! nel rapporto (delle donne) con il mondo maschile”. Ma Prisco non se la prenda più che tanto della mia delusione. Non di rado nei romanzi anche più celebri, a cominciare dai promessi sposi, “il sugo di tutta la storia” non è certo il meglio.
«La Repubblica» 15 gennaio 1985 Lo scrittore e Margherita Stefano Giovanardi
C’è un personaggio che, neanche tanto furtivamente, si aggira per la narrativa italiana più recente. Possano differire i tratti somatici, le alterazioni con cui è messo a confronto, il destino che gli è riservato; ma resta fissa una sua qualità, una condizione tra il professionale e l’esistenziale: si tratta dello “scrittore-in-crisi”. Parecchi romanzi, tra gli ultimi usciti, lo hanno eletto addirittura a protagonista, riservando ai problemi che riguardano la creazione letteraria (o meglio, il suo inquietante inaridirsi) un posto di assoluta preminenza nella scala di “messaggi” loro propria.
Inutile dire che di fronte a tanta fioritura si è subito tentatati di procedere a una sommaria identificazione tra l’autore e il personaggio, per intravedervi l’ennesimo “escamotage” di una narrativa che, non avendo più nulla da esprimere, finisce col raccontare nient’altro che questa sua incapacità, e intanto mette nel carniere un altro romanzo aspettando tempi migliori. Ma sarebbe una generalizzazione abbastanza arbitraria, poiché talvolta quella specie di foto con autoscatto riesce a farsi metafora di una difficoltà ben più ampia e grave, di una inabilità a “capire” che può essere storia di tutti, e non solo del singolo scrittore “inaridito”.
“Lo specchio cieco” di Michele Prisco (Rizzoli, pagg. 245, lire 18.000) è, in questo senso, assai significativo. Il protagonista Matteo è appunto uno scrittore sufficientemente famoso, il quale da tempo non riesce più a scrivere, e si trascina piuttosto abulico in una condizione infelice che nemmeno la trepida protezione della moglie riesce a lenire. A scuoterlo dal torpore intellettuale giunge però propizio l’incontro casuale con una donna che egli aveva conosciuto a San Severino, suo paese d’origine (donna giovane, sposata in seconde nozze da Gerardo Attanasio, padre di un caro amico d’infanzia di Matteo).
Ciò che lo colpisce è il radicale mutamento subito dalla donna, di nome Margherita, nei pochi anni trascorsi dall’ultima volta che l’aveva vista: tanto allora era schiva, dimessa, schiacciata in un ruolo molto vicino a quello della serva, quanto ora è brillante, sicura di sé. Matteo capisce al volo che il destino gli ha offerto un’occasione per tornare a scrivere, e si lancia con rinnovato entusiasmo in una ricerca, a metà fra il tuffo nel passato e l’investigazione, che gli possa permettere di tradurre in romanzo la storia di lei.
Ma quale storia? Già, proprio questo è il problema. In quanto romanziere, Matteo dovrebbe poter “capire” fino in fondo i personaggi che dispone sulla pagina (è o no “onnisciente” il narratore?); si accorge però ben presto che qualsiasi particolare si aggiunga alla sua conoscenza della donna, qualsiasi chiave apparentemente in grado di chiarire il mistero di quella trasformazione, si rivela passibile di svariate interpretazioni, lasciando nella più densa ambiguità situazioni e moventi. C’è una Margherita-Cenerentola, violentata e schiavizzata da Gerardo, disprezzata dai rampolli di lui, ferita e calpestata anche da chi inizialmente sembrava volerle bene: e c’è una Margherita-Lola Lola, che si fa sposare fingendo una gravidanza, assiste senza lacrime alla morte del marito durante un coito, si appropria di un terzo della sua eredità e fa innamorare di sé ambedue i figli del defunto.
Il progetto di Matteo rischia lo scacco: non comprendere il suo personaggio significa non potergli attribuire un destino, rinunciando a portare a compimento la faticosa parabola di cui tuttavia egli avverte l’esistenza dietro quelle vicende tanto aggrovigliate; e il manoscritto che ne ha cavato gli rimanda solo immagini confuse, baluginii senza nessi, profili lacunosi: uno “specchio cieco”, appunto, capace di riflettere solo la disperante inafferrabilità del mondo. Fin qui Matteo. Ma mi accorgo ora di aver trascurato per troppo tempo Prisco. Là dove Matteo ha fallito, infatti, Prisco evidentemente è riuscito, visto che il romanzo ce l’ho qui davanti.
Come ha potuto farcela? Semplice: il suo personaggio è Matteo, non Margherita; e a lui Prisco ha regalato da subito un destino irrevocabile, che è appunto quello di non capire, o di contentarsi di pseudo-soluzioni del tutto fuori centro, come la spiegazione finale che vorrebbe risolvere il mistero di Margherita in chiave sociologica, quasi si trattasse di una graduale e “femministica” presa di coscienza dei suoi diritti di donna: una spiegazione che non spiega nulla, e lascia intatte le tenebre sul “caso” che lei rappresenta, ossia su quella invincibile e onnivora duplicità.
Insomma: il finale sbagliato del romanzo di Matteo è invece il finale giusto per il romanzo di Prisco; suggella infatti con coerenza la lunga marcia nel buio del protagonista e nello stesso tempo segna una distanza decisiva tra autore e personaggio, impedendo qualsiasi identificazione: se Matteo non capisce nulla, è perché Prisco ha deciso fin dalla prima pagina di non fargli capire nulla, e su quella strada lo ha guidato con mano di ferro. Altro che scrittore-in-crisi…
«Il Mattino» 13 ottobre 1986 Montale, dica lei: la giusta distanza Luigi Compagnone
Illustre Eugenio Montale, è stato con antica emozione che venerdì ho letto sul «Corriere della sera» quattro di quelle sue poesie inedite, o segrete, che la signora Annalisa Cima ha fatto stampare in cento copie fuori commercio dall’«Officina Bodoni». Nel parlare della frequentazione avuta con lei, Annalisa Cima ha detto tra l’altro che «Montale insisteva affinché io gli dessi del tu, ma io continuai sempre a dargli del lei e credo che in fondo quel “lei” non gli dispiacesse: Montale amava tenere una certa distanza tra sé e gli altri».
A questo punto vorrei chiederle perché, secondo lei, tale salutare distanza vada sempre decadendo e perché ci diamo tutti del tu. Forse per adeguarci allo you anglosassone?
«Non mi pare. Non credo dipenda dall’irresistibile fascino che promana dal presidente Reagan e dalla signora Thatcher».
Dipende allora dalla TV?
«Certo, in televisione il tu è ormai una prammatica sanzione che affratella gli illustri e i meschini, i grandi e i piccoli, i divi e i comprimari, le stelle e le vallette, i demiurgi del teleschermo e il pubblico telefonante. Vi si respira un’aria casereccia, di salotto, di tinello, di cucina, un’aria che frantuma le distanze tra i cosiddetti grandi nomi e quelli il cui nome non fa storia. Insomma si è alla pari.»
È quindi il trionfo del Confidenziale e del Democratico?
«è il trionfo del Falso Confidenziale e del Falso Democratico, ossia della strategia che offre alle masse l’illusione di un ottimo rapporto tra i sùperi e gli inferi.»
Montale, le pongo un’attonita domanda il tu televisivo è una conquista derivata dal costume generale o è la TV che condiziona il costume?
«Le potrei dare una risposta rassicurante: è l’Italia che è cambiata ma le direi il falso».
Negli anni Trenta, l’Italia minacciava di cambiare col passaggio forzato dal lei al voi. Fra i tanti «Fogli di Disposizione» redatti personalmente da Sua Eccellenza Achille Starace, uno in data 19 agosto 1938 -XVII ammoniva seccamente «è assurdo e riprovevole che dopo quanto è stato detto e scritto, si stenti ancora ad adottare il voi e a respingere nettamente il lei che oltretutto è un’espressione di quello spirito servile ripudiato dal Fascismo nella maniera più recisa. I Segretari Federali li segnalino se nelle province qualche cosiddetta personalità, magari per darsi un tono, presumesse di offrire delle resistenze o di fare dello spirito…» Che ne pensa, Montale?
«Non m’induca a goffe malinconie»
Nello stesso tempo il Minculpop apriva un’inchiesta tra gli scrittori italiani: «Preferite il voi o il lei?»
«Sì, ricordo. Elio Vittorini rispose di preferire il tu. Non fu una risposta evasiva, in quei tempi, il tu significava molte cose».
E oggi che significa?
«Significa che, a furia di essere adoperato nel modo più indiscriminato, è stato svuotato di ogni significato»
Mi scusi la petulanza quando pensa che sia nato?
«Non lo so. Forse nel Sessantotto quando i professori dissero ai ragazzi di parlarsi con il tu. Ma non era ancora un tu consumistico.
Oggi i nostri ragazzoni danno del tu agli anziani. La ritiene una mancanza di rispetto?
«Io, se rispetto una persona, le do del lei»
Ma il tu non facilita i rapporti?
«No, perché è un nuovo conformismo»
Nell’ultimo romanzo di Michele Prisco «Specchio cieco» un personaggio dice ad un altro che ha appena conosciuto «Perché non ci diamo del tu?» E l’altro gli risponde «Ma certamente, dato che non ci conosciamo abbastanza da darci del lei».
È d’accordo con Prisco?
«D’accordissimo con Prisco»
Torniamo agli anziani. Molti di loro esigono il tu dai giovani e i giovani viceversa. E il rispetto per i capelli bianchi?
«Tra le sciagure della civiltà di massa, come ha ben scritto Elemire Zolla, c’è l’abolizione della differenza tra gioventù e vecchiaia. Lei capisce: il tu dà l’esaltazione della giovinezza, nel miserabile tentativo di offrire a tutti il lustro della gagliardia e la cera raggiante: la offre perfino ai cadaveri negli Stati Uniti, quando vengono esposti nelle Funeral Homes»
Ma allora il tu non è un simbolo da accettare in positivo.
«Proprio no: perché se ne fa un uso troppo facile e volgare e provo di qualunque sacralità.»
leggo la cronaca del premio Fiuggi. Tra i premiati anche Prisco. Nulla da obiettare se proprio due giorni orsono, non avessi letto, nel Giornale, l’articolo in cui, con matita blu, venivano segnati gli «errori» della penna di Prisco. Sono in commissione di maturità magistrale. Se uno dei miei candidati nel suo componimento «in italiano» avesse buttato giù uno di questi errori, la commissione, di cui faccio parte, non avrebbe elogiato tale candidato ed il segno blu avrebbe avuto il suo peso nella valutazione dell’elaborato.
Ma se fosse stato, tra noi commissari, l’on. Andreotti questo candidato sarebbe stato elogiato. Come ha elogiato Michele Prisco.