Luciano Satta – Gianluigi Beccaria

«Tuttolibri» 7 dicembre 1985 Agli scrittori io dò la pagella Luciano Satta

«Tutto libri» 14 dicembre 1985

Polemica: il linguista Beccaria replica alle pagelle di Satta

E allora bocciamo Dante, Manzoni e tutti gli altri Gianluigi Beccaria

Nello scorso numero abbiamo pubblicato un’intervista a Luciano Satta e una «pagella» che gli avevamo chiesto con i voti sui libri da lui letti e annotati. Su questo tema interviene il professor Gianluigi Beccaria, ordinario di storia della lingua italiana all’Università di Torino e, da alcune settimane, consulente della rubrica «Parola mia» alla televisione.

Luciano Satta può farne ciò che vuole dei libri che compra o che gli mandano in omaggio, divertirsi come meglio gli pare. Non è che la sua matita blu o rossa cambi qualcosa. Il mare c’è chi lo tenta a bracciate nuotando, chi lo attraversa col favor dei venti, che ne saggia appena la temperatura col piedino, chi vi s’immerge soltanto sino alla cintola: ma nulla cambia, perché il mare è là, sempre lo stesso. E una montagna c’è chi la sa scalare, chi ci sale in funivia, chi ci arriva comodamente in elicottero, chi lungo impervi sentieri: ma la montagna resta sempre uguale a se stessa, imponente, grandiosa.

L’idea che un giornalista-linguista passi ad un setaccio a maglie strettissima gli scrittori italiani contemporanei per dividerli in due schiere, i buoni e i cattivi, i promossi e i bocciati, come si fa coi calciatori il lunedì, mi lascia del tutto indifferente. Anzi: mi dà un po’ di malinconia. Ciascun lettore ha la libertà di maneggiare i testi come crede. Anche quella di leggere un libro intero, un romanzo straordinario, e cavarsi la soddisfazione (assai magra) di trovarci due, tre errori di stampa. Può sconciare con rigacci pagine stupende, purchè il libro, proprietà personale, l’abbia regolarmente pagato; certo a Satta avrei qualche timore a prestare un mio volume, e le pubbliche biblioteche se ne guardino.

Quanto poi a rendere pubblici i risultati delle sue indagini, a pubblicare pagelle (cinque a Moravia, cinque più a Michele Prisco, cinque e mezzo a Italo Calvino, appena sufficiente Umberto Eco, bravissimo e primo della classe Daniele Del Giudice, con sette e mezzo), questo è un altro discorso. C’è una tradizione, lo so, di arguti puristi tutori dell’ordine, da Panzini, Pestelli, Fochi, Gabrielli, ed ora Satta, e Marchi, che nei loro gustosi interventi sui giornali hanno continuato ad osservare la lingua, a sottolinearne più che i movimenti, gli «errori», le deviazioni dalla norma.

Oggi poi tira aria di restaurazione. Da un po’ di tempo in qua si torna a parlare con qualche preoccupazione di problemi di lingua, dell’italiano che va a ramengo, che imbocca chine devianti. Cesare Marchi ha scritto un libro fortunato sul ritorno alle buone maniere.

Tira aria di revival, di bon ton, del si può o non si può! Si piange sulla morte del congiuntivo. Si vuol difendere la «buona lingua». Tornano le (inutili) crociate contro l’invadenza straniera. Battaglie perdute! Della nostra lingua c’è chi stende necrologi, chi invece più saggiamente indica nel cambiare segni di vitalità e non di patologia (e rimanda al dibattito accolto nell’ultimo fascicolo di «Sigma» ed al mio Italiano, lingua selvaggia?). Ma almeno si dibatte sull’italiano standard, sull’italiano comune, colloquiale, quello che usiamo tutti i giorni per le nostre necessità comunicative, scritte o parlate che siano. Satta invece va  a caccia dell’«errore», applica il criterio del giusto-sbagliato alle pagine letterarie.

Dovremo d’ora in poi ritenere pessimo scrittore Manzoni per qualche voluto anacoluto («noi altre monache ci piace sentir le storie per minuto») o per il lui soggetto, condannare Dante ad espiare le sue pene in Purgatorio per i suoi idiotismi, i forti latinismi e le voci forestiere adoperate nella Commedia, bruciare sulla pubblica piazza gli scritti di Gadda, porre all’indice Verga per la sua sintassi pensata in dialetto, rimandare Pavese, metter nel banco dell’asino Beppe Fenoglio, appioppare a Montale un bel quattro perché pronunciava alla greca lo zàffiro, punire ancora Montale e Daniello Bartoli per i loro insieme invece del più corretto insieme con, Boccaccio, Goldoni, e ancora Manzoni e Pavese per i loro che polivalenti, guardarci da Pea per il suo vernacolo, cacciare dalle pubbliche scuole gli «scapigliati», come Dossi o Faldella, far prendere qualche lezione privata a Pirandello per quel po’ di sintassi troppo parlata.

Insomma, Satta si diverte, se ne infischia dello stile e della libertà stilistica degli scrittori, di quanto insomma segna la peculiarità, l’inventiva, la forza appunto della scrittura. È ovvio che gli scrittori possono infischiarsene delle sue pagelle. Ed anche coloro che vogliono apprendere l’italiano. È certo che lo s’impara anche o soprattutto leggendo romanzi. Ma non è dagli scrittori che s’apprendono le «regole» del parlare e dello scrivere corretto. Il grande prosatore ti insegna altre cose: che il maneggio della lingua è libertà, che la libertà linguistica non è anarchia, e poi le possibilità incessanti di molti compensatori, di acidi corrosivi, di contravveleni, di colori intensi di fronte ad ogni «grigiore», di fronte alla semplificazione, alla standardizzazione, alla frase fatta.

Mario Pomilio

«Il Mattino del sabato», 10 novembre 1984 Nell’officina di Prisco: un collega, romanziere come lui, analizza il «metodo» di una narrativa che combina passato e presente, memoria e realtà, ina specialissima «sinossi» che si muove lungo un itinerario avvolgente teso a catturare la «qualità» dell’istante, Mario Pomilio  

Michele Prisco compone i suoi romanzi su grandi quaderni a righe formato protocollo, che riempie a pagine alterne, senza lasciare spazi o margini, con una calligrafia minuta e tutta in orizzontale che sembra fatta apposta per scrivere velocemente. Pochi i tagli e i ripensamenti, poche anche le cancellature che rivelano l’esitazione nella scelta d’una parola, rare anche le aggiunte, il più delle volte inserite ingegnosamente tra riga e riga, e solo talora, le più lunghe, riportate sul retro della pagina. L’impressione che se ne ricava è d’un grande ordine mentale, d’un’applicazione continua e senza dissipazioni e d’una stesura rapida, fluida, non cincischiata né tormentata. Nella realtà è proprio così: pochi scrittori conoscono quanto Prisco la felicità dell’abbandono alla pagina e il gusto, la gioia dello scrivere, e pochi hanno avuto in sorte come lui di disporre fin dall’inizio d’una scrittura già adulta, d’una sensibilità già formata, d’un ambiente ben definito, d’un certo ordine di personaggi. Il lungo mestiere ne ha affinato gli strumenti, non vi ha introdotto decisive varianti: quella di Prisco è tra l’altro la storia di una lunga fedeltà alle proprie origini, d’un lavoro andato per linee concentriche.

Qualità del genere consentono di solito di stendere un libro in tempi brevi, e Prisco non si sottrae a questa regola: una volta identificato un tema a lui congeniale, una volta precisato un progetto strutturale – che è poi in lui, come diremo, tutt’uno, talmente inerisce il tema al progetto, sicché non si sa se l’abbia attirato di più una vicenda ovvero una struttura -, il lavoro di scrittura gli diventa agevole, le risposte espressive, ancorché nuove, gli fioriscono quasi naturalmente, come accade di norma quando una prosa è fortemente sollecitata da intime leggi musicali e quindi attira a sé le parole, scava per esse continue nicchie, ha bisogno d’immagini e stilemi subalterne come un motivo di note d’appoggio. Il riferimento alla musica è in ogni caso un tema d’obbligo quando si parla della prosa di Prisco, per com’egli fluidifica il proprio discorso narrativo, per come la sua sintassi, a volute talora sontuose, si presenta folta d’ombreggiature, di ristagni, d’indugi, d’interstizi, di parole indiziarie e interlineature espressive che rimandano di continuo, beninteso a soggiacenze psicologiche quanto mai intrise di motivazioni semantiche, ma intanto continuano a valere di per sé, parole devolute a far clausola, ritmo, musica appunto.

Più lenti, più lunghi, sono invece in Prisco i periodi d’incubazione. Tra la fine d’un romanzo e il concepimento d’un altro ha talora trascorso anni di vacanza dalla pagina: e non solo perché, come tutti, ha i suoi normali tempi biologici che comportano stanchezze, arresti, pause di ripensamento e di sazietà di se stesso e magari crisi consumate al buio, ma perché è come se diffidasse della propria facilità, del proprio nativo istinto fabulatorio e s’accanisse ad esercitare una specie d’interdetto sulla propria immaginazione. Sono esitanti, tormentate partenze, le sue, tutte dominate dal problema del come sottrarsi alle tentazioni e alle proclività della «bella storia» pur restando quel che egli è, un narratore a tutti gli effetti che ama cercarsi le sue vicende nel campo del verosimile. Il suo novecentismo s’esprime anzitutto in questo tormento e in una specie d’esercizio critico preventivo che costella di sospetti il processo ideativo.

Quanto più una vicenda lo raggiunge già formata, quanto più ritrova a memoria ambienti, personaggi, situazioni a lui congeniali, tanto più s’affanna a moltiplicare le sue censure e s’ostina a interrogarsi sulla loro esemplarità e la loro intrinseca necessità. Sono domande che trovano risposta – se risposta può chiamarsi – solo al termine del libro, quando ha scritto l’ultima pagina. Ma si capisce. Al contrario di quegli scrittori a prevalente stampo intellettuale (e così spesso velleitari) che già in partenza sanno tutto di ciò che vogliono significare e adattano le trame al loro mondo intenzionale, il destino di Prisco è d’andare, si direbbe, dalla «realtà» alla «verità» di partire cioè da situazioni romanzesche tutte dense degli spessori e della imperiosa persuasività del vissuto, ma di cui intravede solo nebulosamente il senso e le motivazioni. Comporre un romanzo è tra l’altro, per lui, muovere alla scoperta del proprio mondo intenzionale, il lavoro di stesura è in sottofondo una continua interrogazione dei fatti, un lavoro di decifrazione. E ciò, ovviamente, si riverbera anche sul lettore, implica col libro un rapporto di tipo particolare: se vi riflette, la sospensiva suscitata dai romanzi di Prisco non è nell’ordine degli eventi, ma nell’ordine dei moventi, non riguarda tanto lo scioglimento, quanto il significato della vicenda.

Ciò non va tuttavia senza infinite mediazioni. Si parlava di quelle specie di diffidenza che contrassegnano i primi passi di Prisco nell’ideazione di un nuovo libro: ed è singolare che in lui tacciato in qualche caso di naturalismo nasca invece da una condizione antinaturalistica, se si preferisce, da un’esigenza sperimentale smentita o obliterata solo in qualche libro, e insomma da una vera e propria ritrosia verso il tal quale della realtà, che egli ha solitamente bisogno di manomettere operandone prima una specie di smontaggio per poi riorganizzarla, e implicitamente reinventarla, attraversando un’operazione che, come si è già accennato, tocca in primo luogo le strutture narrative mediante tipi di «trattamento» assai vari, che vanno ad esempio dalla scomposizione della cronologia al racconto a presa indiretta, alla scelta di un punto di vista affidato alla voce d’un personaggio narrante, alla moltiplicazione dei piani, all’incastro tra storia e storia; non senza il calcolato margine di ambiguità che deriva al soggetto da una simile sofisticazione. Senza, s’intende, voler generalizzare intorno ad un metodo che rinasce e si rinnova di libro in libro, si può dire che l’ideale di Prisco non è la diacronia, bensì la sincronia o, meglio ancora, la sinossi.

La sua inventiva strutturale non nuove affatto in senso lineare, in base alle esigenze del prima e del poi, ma piuttosto, si direbbe, in senso spaziale, in cerca di convergenze tra punti assai distanti: aduna la trama intorno ad alcuni insiemi, li mette in relazione tra loro in base a misteriose leggi prospettiche ovvero li disordina osservando un suo segreto criterio d’ordine che alla fine da un labirinto ricava una mappa. Così smontata e rimontata la storia non s’assomiglia. Alla tranche de vie, allo spaccato di buona memoria naturalistica subentra una specie di campo gravitazionale retto da sottili regole combinatorie.

A questo punto il libro è maturo per esser scritto. E da questo punto in poi il criterio della sinossi si trasferisce dalla macro alla microstruttura, dalla vicenda alla pagina.

Si è accennato ad almeno alcune delle qualità della prosa di Prisco. Si può continuare dicendo che essa assomiglia a una spirale, a un movimento avvolgente che, lungi dal mirare a una messa a nudo dell’evento, aspira come a catturare la qualità multiforme dell’istante in cui esso si verifica, sensazioni e sentimenti insieme, luci ombreggiature, sonorità dissolvenze.

Ogni sua pagina sembra percorsa da nascoste interferenze, è ammorbidita da incisi infiniti che non sembrano lasciare nulla d’intentato per farci percepire le misteriose sincronie del reale e tutta la vorace ambiguità del vissuto. E in effetti protagonista di essa non è il tempo, ma la durata, il combinarsi e sovrapporsi degli stati di coscienza, il loro simultaneo inserire l’uno nell’altro per entro l’unità quantitativa del reale. Se potessimo darcene una rappresentazione grafica, la prosa di Prisco farebbe pensare a una partitura.

È che senza essere, se non occasionalmente, scrittore di memoria, egli applica nei confronti dei suoi materiali narrativi qualcosa di molto vicino alla tecnica della memoria, tende cioè a cogliere la realtà nel momento in cui si fa, ma allorché è diventata ovvero assomiglia a una realtà ricordata con tutte le stratificazioni, le soggiacenze, le difformità, le smarginature, le derivate psicologiche, le penombre coscienziali introdottivisi nel suo passaggio da fatto a ricordo, da situazione insomma vissuta a impasto memoriale. Nei libri di Prisco coesistono sempre il prima e l’adesso, o meglio l’adesso è riferito di continuo alle elusive tabelle del prima. Se vi si bada, i suoi personaggi hanno sempre l’aria di rileggere la loro esistenza sulle sinossi della memoria.

Si tratta, pensandoci bene, dell’esistenza stessa dei metodi di Prisco. Tutto il vario trattamento cui sottopone le sue storie, tutte le diverse qualità della sua prosa e l’insieme delle strategie formali ch’egli attua fin dal primo concepimento d’un libro non hanno in fondo altra meta. I suoi romanzi più tipici, quelli che meglio lo rappresentano non sono, a conti fatti se non altrettante sinossi della memoria. Ingannevoli sinossi! All’interno di esse, come in un giuoco speculare, i personaggi di Prisco si manifestano o si confessano, si riesaminano oppure si recitano alla presumibile ricerca della propria verità. Ma le verità dei personaggi appartengono, si sa, all’autore e in un’ultima analisi al lettore. Per quel che li riguarda, passate come sono attraverso la logica deformante del ricordo, le loro verifiche assomigliano a un autoinganno, non approdano il più delle volte che a una fenomenologia dell’ambiguità. Un tema ulteriore, per chi volesse interrogarsi ancora sull’antinaturalismo di Priaco; e magari, a questo punto, sul suo stesso naturalismo.

Aldo Vallone

Aldo Vallone

Quotidiano di Taranto 21 dicembre 1984 Con la fantasia gioca lo scrittore Aldo Vallone

«Corriere di Napoli» anno CIV n. 2 Margherita, l’ultima dama di Piazza Aldo Vallone

Più che mai in questo romanzo del Prisco, Lo specchio cieco (Rizzoli Editore), il gioco, sottilmente irridente e divertito, tra realtà e fantasia, punta tutte le sue risorse e si apre ora a squarci autobiografici, ora a dichiarazione d’intenti, ora a confessioni sul mestiere dello scrittore o sull’arte del fabulare. É un gioco che mette sempre a dura prova le capacità narrative, le virtù del creatore di situazioni ed anche, nell’insieme, l’attenzione al reale o ai particolari del reale. La «fiaba», perché non c’è da credere a questo magnifico «bugiardo», è d’impianto pirandelliano: e a Pirandello, anni fa, tentai di riportare tanta parte, e la migliore, dell’odierna narrativa napoletana. V’è il gioco delle parti, c’è la simulazione delle apparenze, v’è soprattutto la lama, sottilissima e affilata, dell’umorismo.

Si tratta di una donna, Margherita Attanasio umile e scialba prima e dopo il matrimonio: non più tale, a vedovanza matura, che su di sé e per sé promuove, non so quanto per civetteria muliebre o per riscatto della sua condizione, l’interesse dei giovani figli del marito e poi, a cerchi più vasti, di altri come Matteo (l’io narrante) o il pittore Braschi. É sempre il cerchio famigliare, caro da un secolo alla narrativa «borghese» italiana (come non pensare, almeno in funzione di prototipo, a Demetrio Pianelli?). La tentazione dell’equivoco o dell’«ambiguo» (la parola-situazione campeggia, ovunque) sfiora ogni pagina del romanzo; ma Prisco ha superato, e di molto, a confronto con le prime prove, il compiacimento di tali tentazioni: se mai, v’è solo, ma alla lontana, un’ombra suggestiva. Il nuovo giunge proprio quando il lettore, aspettandosi un puro intreccio di equivoci, si trova poi dinanzi ad un tale rovesciamento di soluzioni.

Sì, Margherita convive con Biagino, figlio del marito; tenta, o sembra tentare attraverso riflessi contraddittori l’altro figlio, Alberto; persuade ad atteggiamenti confusi ed «equivoci» Matteo e Braschi; ma poi ci si accorge che nessuno di loro cambia e chi cambia è proprio e solo lei, Margherita, che da piatta e informe donna diventa bella, elegante e accattivante: e come se questo non bastasse passa da insipida sottomessa a padrona, sicura e prepotente. C’è un gioco delle parti c’è il divertimento sapiente del narratore, che, sdoppiando la figura, avvolge, coinvolge ed involge capovolgendo ritratto fisico e morale.

Ne intravede i dati Matteo, felice, come narratore della vicenda, di essere riuscito a «ricucire attraverso i vari incontri con lei e il suo ambiente famigliare» e di vedere ormai che «la vita, ogni vita, possiede come la luna, una faccia nascosta, un sembiante segreto», per cui non si può penetrare in questo recinto clandestino senza arrischiare la frustrazione delle scoperte che c’impoveriscono e c’inaridiscono». Si approssima al vero ancor più il pittore Braschi, che coglie nella donna «lo sforzo di trasformarsi in un’altra donna, di dimenticare le sue origini o meglio il suo passato, perchè si è messa con Biagino, che è l’uomo che meno la capisce, perché fa la donna di mondo, la cittadina, e invece resta legata alle sue origini e al suo passato». Più in là va, solo e proprio, Margherita nel confondere verità e menzogna, falsità e realtà: è, nel suo fondo, quello che era o non lo è più? Ma chi potrà mai distinguere personaggio e attore, volto e maschera? Prisco però ha la sua verità e la ripone nelle parole di Elena, donna silenziosa e vigile come lampada  che con la sua tenue luce porta via incubi e sogni deliranti:«Uno scrittore non dimostra, ma rappresenta: forse la tua scontentezza deriva proprio dal fatto che ti sei messo a scrivere più che obbedendo a un’emozione cercando subito un significato in quello che scrivi». Cessa così, anche per il lettore, il «gusto» della vicenda e si riapre l’interesse per l’arte di questo romanziere.

Il romanzo è dentro al grande arco della produzione narrativa di Prisco, la cui snodatura in tempi e modi è, e lo penso ora ancor più decisamente, La dama di piazza (1961). Ma al di là e al di qua di quel punto, marcato solo idealmente, fluiscono condizioni e tempi, temi e proposte (qui, ad esempio, Margherita è posta come «metafora di una certa condizione della donna del Sud»); ma anche, scendendo nei particolari colori suoni compiacenze modulazioni di lingua e stile. Tutto è attorno a Margherita, «dama» anch’essa. Le attenzioni più minute, ma non per questo più indulgenti o compromissorie, sono rivolte a lei: qui, però, ancor più nettamente, proprio per quel cogliere e sottolineare quell’esser «donna», che sempre più donna diviene di sè dinanzi a sè e agli occhi dei famigliari, tutti direttamente coinvolti, e degli amici, pur essi storditi e travolti, o del pubblico romano o dei paesani di San Severino, attoniti o smorti in un paesaggio urbano quanto mai distaccato e sfuggente.

La femminilità, propria dell’adolescente che si scopre donna, ha complice, come accade in ogni romanzo per donne di inquieta età, lo specchio:«Fu un’ispezione muta, minuta e addirittura impietosa. La lastra rifletteva l’immagine di una giovane donna priva di ogni attrattiva…: il corpo fragile nel vestito a lutto e quasi curvo…, lo sguardo spaesato…, i capelli spenti…»; ma poi «istintivamente, cominciò a sfilarsi ad una ad una le forcine», per cui «i capelli con un lieve ondeggiamento si scioglievano cadendo adagio»; e dopo «le si affacciò nello sguardo un sorriso: più che esitante, era, contro la sua stessa volontà, già torbido e vendicativo». É nata una donna non solo diversa, ma il contrario di quel ch’è o s’era reputa di essere o meglio è pirandellianamente altro di sè stessa: i particolari, poi, registrati tutti con studio e assaporati con estrema lentezza, sembrano succedersi per «istinto», come appunto si dice, e senza determinazione: ma è il contrario.

Proprio questi particolari Prisco accarezza con compiacimento, sapiente e attentissimo, sicché può sembrare che la stessa «struttura»‚ che pur vale per sé stessa, con loro si ponga in evidenza e si verifichi. E intanto tempo, natura, caratteri fisici e morali sono, anche qui, colti in decadenza e sotto luce crepuscolare: «grasso e molliccio» o «grasso e flaccido» o «sfinito e svuotato» è il corpo, sempre in «disfacimento» e in «afflosciamento», languido» è il lamento, «grasse» le camelie, là, invece, sale «il fiato» del fiume o soffia «il vento caldo» e risucchia «l’aria alida, calda e polverosa, «stagnante» la pozzanghera e «l’odore marcio»; attorno si muovono personaggi di «annoiata sazietà», dalla «faccia dilavata» e dalla «carnagione smorta»; e poi ovunque «penombra discreta» o «azzurra», «aria tiepida nell’oscurità lattea», «stanze ombrose» e «mobili consunti e d’invecchiate stagioni», «profumo vago di lontani invisibili giardini», e ancora, attorno, «odori indefiniti» da quello «caldo e appiccicoso del caprifoglio in fiore» o ancora «cremoso» a quello delle «violacciocche» e della «pastiera pasquale» in «un vago sentore di putredine» e all’«inconfondibile impalpabile profumo impigliato agli abiti». Ogni dato, insomma, si confonde con gli altri e contribuisce a creare una particolare atmosfera di «giornate spente», nella «desolata solitudine del paesaggio», «che diventa naturale col silenzio e la mancanza del sole». Odori, suoni, colori rifluiscono insieme nel corso del racconto e portano a «scatenare i ricordi».

Nei primi romanzi Prisco è ancora, a mio parere, suggestivamente legato a motivazioni dannunziane; ma dopo, via via, alleggerendosi, giunge a dare nutrimento e pensiero, vita ed azione. L’atmosfera così carica non è fine a sè stessa, genera e promuove, invece, avvolgendoli e spesso ricreandoli, caratteri attitudini comportamenti dei personaggi. Di qui, anzi, taluni veri e propri ripensamenti (come «a penarci bene», «poi, se sarà il caso, spiegherò», «forse il termine è esagerato», ecc.), che valgono come soste di meditazione, talvolta anche nelle sequenze degli aggettivi a teme, o pianerottoli di raccordo nel fluire della narrazione. A questa necessità sovviene anche l’uso assiduo, incalzante di parentesi (un modo che i grammatici ripudiavano): ve ne sono di ogni genere e per ogni scopo: ampie, brevi, essenziali, didascaliche: tutte tendono non solo a dare appoggio al pensiero, ma anche a completare, anzi a rifinire un’azione, un profilo, un sentimento. É il «cantuccio» più autobiografico, sotto il profilo culturale, di Prisco: si contano talvolta due-tre parentesi a pagina: nell’insieme oltre cinquanta valgono a dare segno concreto al momento narrativo. É una caratteristica di Prisco: ogni narratore ne ha di proprie a iniziare da Manzoni, di cui si darà testimonianza in un altro scritto. Né forse altra via si poteva percorrere per un romanzo che tutto rifondendo (anche le evidenti tracce di psicanalisi) ha un suo preciso posto ed avanza una nuova proposta nel romanzo «borghese» d’oggi.

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