Federico Orsini

«La voce della provincia» 27 settembre 1985 Una vita per la cultura Federico Orsini

Il premio Fiuggi ti è stato assegnato per il complesso della tua opera di narratore. Quanta parte di Torre c’è in questo successo?

«Quanta parte di Torre?…Direi la mia vita. La motivazione del Premio Fiuggi è «una vita per la cultura». Io ho cominciato da Torre, da qui sono poi andato via, ma sono legato alla mia città. Direi che comunque Torre intesa nel senso più largo, non vorrei dire ancora una volta di “Provincia addormentata” (titolo del mio primo libro), ma di mondo di provincia sociale, è stata al centro dei miei interessi. Sotto questo aspetto, credo di essere stato un narratore molto coerente e molto fedele ai suoi temi iniziali».

Che cosa è lo «specchio cieco» e come collochi quest’ultimo libro nel tuo iter artistico?

«Letteralmente lo ” specchio cieco” e quello che non rimanda le immagini che vi si riflettono. Metaforicamente e simbolicamente vuol significare la difficoltà, se non proprio l’impossibilità, oggi per un narratore di rappresentare la vita attraverso la letteratura, di poter fermare sulla pagina la vita che è così fluida, contraddittoria e contrastante. Quale posto gli darei nella mia produzione? È il mio dodicesimo libro, nasce tutto sommato dagli altri, dai precedenti, anche se offre un’apertura nuova. Intanto nel personaggio della protagonista, Margherita Attanasio, ho cercato di presentare un tipo nuovo di donna quale oggi va emergendo nella società del Sud, consapevole dei propri diritti e decisa ad affermarlo.  Questo sia detto senza una punta di femminismo che non c’è nel libro. E poi questa volta a raccontare la storia di Margherita è uno scrittore in crisi, che non è un personaggio autobiografico, ma che comunque mi ha dato la possibilità di giostrare su due piani narrativi».

Potresti fare un bilancio della tua vita di scrittore da “la provincia addormentata” allo “specchio cieco”?

«I bilanci sono malinconici e poi sono anche difficili soprattutto nel caso di uno scrittore che dovrebbe farsi critico di se stesso. Considerando “la provincia addormentata” che è del 49 per arrivare a “specchio cieco” che è del novembre 84 (12 libri in 36 anni di attività), credo di essere rimasto fedele ai miei temi che ho cercato di approfondire di volta in volta. Soprattutto direi che sono stato fedele ad un tipo di narrativa, di letteratura e ad una immagine di scrittore che ha cercato sempre virgola e fortunatamente c’è riuscito, di fare a meno delle mode, delle parole d’ordine estetico del momento, delle imposizioni.  Questa ritengo sia una mia connotazione umana prima ancora che letteraria».

A quale dei tuoi romanzi sei più affezionato?

«Difficile dirlo, sai i libri sono i figli di carta per un autore. Sino a qualche anno addietro le mie simpatie andavano a “figli difficili” perché lì c’è il ritratto di una generazione che è stata la mia, cioè quella dei giovani che avevano vent’anni al momento della guerra. “I cieli della sera” è un libro al quale sono molto legato anche perché mi sembra che meglio riesca a fondere mondo intenzionale e mondo espressivo. Naturalmente c’è quest’ultimo che è un libro particolare perché è stato attraversato da una vicenda mia, molto intima, personale ed è venuto fuori virgola dopo una lunga interruzione, con molto dolore direi da parte mia. Non perché sia l’ultimo ma appunto perché è stato il più sofferto, è forse quello che amo di più».

Veniamo al premio Oplonti,  siamo alla quarta edizione, se dovessimo fare un bilancio?

«Mi sembra assolutamente positivo nel senso che questo “piccolo” premio, che nasce da un circolo privato con una “piccola” giuria cioè una giuria molto ristretta, si è subito creato un suo spazio. Premi in Italia veramente sono tanti ma l’Oplonti ha questa caratteristica: premia uno scrittore per il complesso della sua carriera (Oplonti d’oro) ed un’altro all’opera prima (Oplonti d’argento). In questo accostamento di un autore della maturità ad uno degli esordi questo premio non solo esprime la sua fiducia direi nella narrativa italiana, ma ha anche una struttura tale che gli consente di attribuire i riconoscimenti con assoluta serenità, per chi non si concorre, non si partecipa e quindi la giuria opera in perfetta libertà di giudizio»

C’è però qualche critica da più parti sul mancato rinnovamento del premio Oplonti, nell’organizzazione e soprattutto nella giuria che è sempre la stessa.

«Così come hai strutturato il premio si potrebbe allargare o cambiare ma direi che appunto la composizione di una giuria ristretta consente una maggiore autonomia ed una maggiore libertà di scelta. Quanto all’organizzazione, io vengo qui direi al momento della premiazione, tutto è molto bello: ci sono le luci le toilettes, tantissimi fiori, il pubblico ed è per tutto ciò che io forse vedo solo gli aspetti positivi di questa manifestazione».

Che cosa ci stai preparando?

«Niente. Quando esco dalla stesura di un libro mi ci vuole un anno per riprendermi. L’ultimo però è stato un libro particolare per cui forse la ripresa sarà più lenta».

Pasquale Sabbatino

Pasquale Sabbatino

«Avanti» 19 luglio 1985 Una polemica da scrittore a scrittore Pasquale Sabbatino

Anche questa volta, nel suo ultimo romanzo, Lo specchio cieco, (Milano, Rizzoli, 1985), Michele Prisco fornisce due preziosissime informazioni, in forma di citazione, ai lettori desiderosi di compiere l’avvincente viaggio nel testo narrativo. Si cita da Proust (“voi potete raccontare tutto, ma a una condizione che non diciate mai ‘io’”) e dai fratelli Goncourt (“non si scrive il libro che si vuole”), avvertendo i viaggiatori lettori, ad apertura, di quello che, dapprima gradualmente e poi sempre più consistentemente, durante lo snodarsi della trama, sarà definitivamente chiaro a chiusura del viaggio letterario. La citazione di Proust invita a guardare all’io narrante (Matteo) e alle sue peripezie narrative pur di “raccontare tutto” su Margherita Attanasio gioca a nascondino. Nasconde l’io narrante dietro gli altri personaggi, i quali, più che essere narrati da Matteo nell’intreccio delle loro storie individuali con quella di Margherita Attanasio, narrano a Matteo i segmenti delle loro storie, laddove sono secanti o tangenti rispetto a quella di Margherita. L’abilità dell’io narrante si manifesta nel nascondersi, quando vuole e come vuole, dietro chi vuole, sfruttando a proprio capriccio gli spezzoni dei singoli racconti, accuratamente collezionati e collazionati, ora accostati lungo addentellati, ora giustapposti grazie a evidenti parallelismi, ora posti in sequenze ravvicinate e quindi rivelatrici di indizi.

La metamorfosi più accattivante si ha nella rivelazione iniziale dell’io narrante come io scrivente (“Prima di cominciare a scrivere la sua storia dovrei chiedermi più esattamente, qual è la vera storia di Margherita Attanasio”, p. 9).

Il personaggio Matteo, che è l’io narrante, di professione fa lo scrittore, per cui l’atto del narrare la storia di Margherita Attanasio, la quale storia ha dei raccordi con la propria storia, per cui nella storia di Margherita è un personaggio si risolve nell’atto di scrittura di quella storia. La situazione, allora, è scopertamente pirandelliana. Lo scrittore personaggio Matteo è alla ricerca dei suoi personaggi e questa ricerca gli permette di superare una crisi di scrittura e i personaggi sono in cerca di Matteo autore. E a Pirandello si riallaccia la narrativa dei maggiori scrittori napoletani (Prisco e Rea), per suggestioni, motivi, tecniche e, fondamentalmente, per l’umorismo,

la storia di Margheria Attanaio appare a Matteo divisa in due da “una specie d’insondabile spartiacque”, la morte del marito Gerardo. Nel primo periodo Margherita Attanasio “orfana dei genitori”, aveva vissuto a Lancusi presso alcuni parenti, appare dapprima come donna scialba (“spenta donnetta”, “sottomessa e inespressiva”) e collaboratrice domestica in casa Attanasio, e poi, alla morte di Eleonora, la prima signora Attanasio, come donna che vive passivamente i rapporti sessuali con Gerardo, “uomo rozzo”, fino poi a sposarlo per un “allarme” risultato “falso” (la gravidanza). Anche durante i “non molti anni del suo matrimonio con Gerardo Attanasio”, Margherita, elevatasi da collaboratrice domestica a “seconda signora Attanasio”, vive molto piattamente il rapporto con il marito “padrone”, che la considera come “una serva buona solo a letto”.

La trasformazione di Margherita in un’altra donna risale alla morte di Gerardo. E di questa trasformazione l’io scrivente vuol conoscere “i momenti e i moventi”.

Nell’intreccio della storia Margherita si annoda anche la vicenda di Matteo. Lo scrittore personaggio non pubblica oramai da tempo e il suo “mondo narrativo” è “come impoverito dentro e, peggio, svuotato”. Per di più la televisione, il piccolo schermo, catapulta sin dentro le case la “realtà esterna”, divenuta ormai “così violentemente prevaricante e preponderante che ci si chiede, mi chiedo a volta se non abbia essa soltanto diritto a esistere in altre parole, se oggi mette ancora conto scrivere e di che – A questo si aggiunga il processo d’involgarimento sempre più persuasivo, intorno a non una dispersione e distrazione del destinatario, per così dire, un generale disagio e senso di precarietà”. Qui Matteo la sa lunga e a Matteo Prisco affida alcune sue annotazioni sulla narrativa e il suo discorso scivola volutamente, ma per poi rialzarsi, sul sociologico. La crisi di Matteo è, dunque, la crisi dello scrittore d’oggi, e non certo, però, di “quei colleghi che senza problemi, buoni forse soltanto a frastornare, hanno ogni paio d’anni se non prima pronta una “novità” da lanciare sul mercato”. E qui da sociologico il discorso diviene polemico verso gli scrittori sollecitati dal mercato più che dai problemi. Infine è personale” i miei romanzi sono ogni volta scaturiti da una urgenza interiore, hanno ogni volta obbedito a una specie di richiamo emotivo (…) e, in definitiva,   ho sempre avuto bisogno, prima, di credere, Ehi che per un narratore ritengo resti ancora condizione primaria”. Si ribadiscono, così, le ragioni narrative di Matteo e di Prisco.

Se nel romanzo l’immagine dello “specchio cieco” rappresenta la crisi dello scrittore, il vacillante e precario rapporto tra lo scrittore e la realtà il romanzo invece ci dà, come in uno specchio che vede , i lineamenti di uno scrittore che, ricomponendo le sue ragioni narrative,  rivela di avere delle forme perfette. E si faccia soprattutto attenzione alla forma della scrittura, piacevole e sempre seducente, di uno scrittore che è sempre molto fine.

Mario Pomilio

«Il Mattino del sabato», 10 novembre 1984 Nell’officina di Prisco: un collega, romanziere come lui, analizza il «metodo» di una narrativa che combina passato e presente, memoria e realtà, ina specialissima «sinossi» che si muove lungo un itinerario avvolgente teso a catturare la «qualità» dell’istante, Mario Pomilio  

Michele Prisco compone i suoi romanzi su grandi quaderni a righe formato protocollo, che riempie a pagine alterne, senza lasciare spazi o margini, con una calligrafia minuta e tutta in orizzontale che sembra fatta apposta per scrivere velocemente. Pochi i tagli e i ripensamenti, poche anche le cancellature che rivelano l’esitazione nella scelta d’una parola, rare anche le aggiunte, il più delle volte inserite ingegnosamente tra riga e riga, e solo talora, le più lunghe, riportate sul retro della pagina. L’impressione che se ne ricava è d’un grande ordine mentale, d’un’applicazione continua e senza dissipazioni e d’una stesura rapida, fluida, non cincischiata né tormentata. Nella realtà è proprio così: pochi scrittori conoscono quanto Prisco la felicità dell’abbandono alla pagina e il gusto, la gioia dello scrivere, e pochi hanno avuto in sorte come lui di disporre fin dall’inizio d’una scrittura già adulta, d’una sensibilità già formata, d’un ambiente ben definito, d’un certo ordine di personaggi. Il lungo mestiere ne ha affinato gli strumenti, non vi ha introdotto decisive varianti: quella di Prisco è tra l’altro la storia di una lunga fedeltà alle proprie origini, d’un lavoro andato per linee concentriche.

Qualità del genere consentono di solito di stendere un libro in tempi brevi, e Prisco non si sottrae a questa regola: una volta identificato un tema a lui congeniale, una volta precisato un progetto strutturale – che è poi in lui, come diremo, tutt’uno, talmente inerisce il tema al progetto, sicché non si sa se l’abbia attirato di più una vicenda ovvero una struttura -, il lavoro di scrittura gli diventa agevole, le risposte espressive, ancorché nuove, gli fioriscono quasi naturalmente, come accade di norma quando una prosa è fortemente sollecitata da intime leggi musicali e quindi attira a sé le parole, scava per esse continue nicchie, ha bisogno d’immagini e stilemi subalterne come un motivo di note d’appoggio. Il riferimento alla musica è in ogni caso un tema d’obbligo quando si parla della prosa di Prisco, per com’egli fluidifica il proprio discorso narrativo, per come la sua sintassi, a volute talora sontuose, si presenta folta d’ombreggiature, di ristagni, d’indugi, d’interstizi, di parole indiziarie e interlineature espressive che rimandano di continuo, beninteso a soggiacenze psicologiche quanto mai intrise di motivazioni semantiche, ma intanto continuano a valere di per sé, parole devolute a far clausola, ritmo, musica appunto.

Più lenti, più lunghi, sono invece in Prisco i periodi d’incubazione. Tra la fine d’un romanzo e il concepimento d’un altro ha talora trascorso anni di vacanza dalla pagina: e non solo perché, come tutti, ha i suoi normali tempi biologici che comportano stanchezze, arresti, pause di ripensamento e di sazietà di se stesso e magari crisi consumate al buio, ma perché è come se diffidasse della propria facilità, del proprio nativo istinto fabulatorio e s’accanisse ad esercitare una specie d’interdetto sulla propria immaginazione. Sono esitanti, tormentate partenze, le sue, tutte dominate dal problema del come sottrarsi alle tentazioni e alle proclività della «bella storia» pur restando quel che egli è, un narratore a tutti gli effetti che ama cercarsi le sue vicende nel campo del verosimile. Il suo novecentismo s’esprime anzitutto in questo tormento e in una specie d’esercizio critico preventivo che costella di sospetti il processo ideativo.

Quanto più una vicenda lo raggiunge già formata, quanto più ritrova a memoria ambienti, personaggi, situazioni a lui congeniali, tanto più s’affanna a moltiplicare le sue censure e s’ostina a interrogarsi sulla loro esemplarità e la loro intrinseca necessità. Sono domande che trovano risposta – se risposta può chiamarsi – solo al termine del libro, quando ha scritto l’ultima pagina. Ma si capisce. Al contrario di quegli scrittori a prevalente stampo intellettuale (e così spesso velleitari) che già in partenza sanno tutto di ciò che vogliono significare e adattano le trame al loro mondo intenzionale, il destino di Prisco è d’andare, si direbbe, dalla «realtà» alla «verità» di partire cioè da situazioni romanzesche tutte dense degli spessori e della imperiosa persuasività del vissuto, ma di cui intravede solo nebulosamente il senso e le motivazioni. Comporre un romanzo è tra l’altro, per lui, muovere alla scoperta del proprio mondo intenzionale, il lavoro di stesura è in sottofondo una continua interrogazione dei fatti, un lavoro di decifrazione. E ciò, ovviamente, si riverbera anche sul lettore, implica col libro un rapporto di tipo particolare: se vi riflette, la sospensiva suscitata dai romanzi di Prisco non è nell’ordine degli eventi, ma nell’ordine dei moventi, non riguarda tanto lo scioglimento, quanto il significato della vicenda.

Ciò non va tuttavia senza infinite mediazioni. Si parlava di quelle specie di diffidenza che contrassegnano i primi passi di Prisco nell’ideazione di un nuovo libro: ed è singolare che in lui tacciato in qualche caso di naturalismo nasca invece da una condizione antinaturalistica, se si preferisce, da un’esigenza sperimentale smentita o obliterata solo in qualche libro, e insomma da una vera e propria ritrosia verso il tal quale della realtà, che egli ha solitamente bisogno di manomettere operandone prima una specie di smontaggio per poi riorganizzarla, e implicitamente reinventarla, attraversando un’operazione che, come si è già accennato, tocca in primo luogo le strutture narrative mediante tipi di «trattamento» assai vari, che vanno ad esempio dalla scomposizione della cronologia al racconto a presa indiretta, alla scelta di un punto di vista affidato alla voce d’un personaggio narrante, alla moltiplicazione dei piani, all’incastro tra storia e storia; non senza il calcolato margine di ambiguità che deriva al soggetto da una simile sofisticazione. Senza, s’intende, voler generalizzare intorno ad un metodo che rinasce e si rinnova di libro in libro, si può dire che l’ideale di Prisco non è la diacronia, bensì la sincronia o, meglio ancora, la sinossi.

La sua inventiva strutturale non nuove affatto in senso lineare, in base alle esigenze del prima e del poi, ma piuttosto, si direbbe, in senso spaziale, in cerca di convergenze tra punti assai distanti: aduna la trama intorno ad alcuni insiemi, li mette in relazione tra loro in base a misteriose leggi prospettiche ovvero li disordina osservando un suo segreto criterio d’ordine che alla fine da un labirinto ricava una mappa. Così smontata e rimontata la storia non s’assomiglia. Alla tranche de vie, allo spaccato di buona memoria naturalistica subentra una specie di campo gravitazionale retto da sottili regole combinatorie.

A questo punto il libro è maturo per esser scritto. E da questo punto in poi il criterio della sinossi si trasferisce dalla macro alla microstruttura, dalla vicenda alla pagina.

Si è accennato ad almeno alcune delle qualità della prosa di Prisco. Si può continuare dicendo che essa assomiglia a una spirale, a un movimento avvolgente che, lungi dal mirare a una messa a nudo dell’evento, aspira come a catturare la qualità multiforme dell’istante in cui esso si verifica, sensazioni e sentimenti insieme, luci ombreggiature, sonorità dissolvenze.

Ogni sua pagina sembra percorsa da nascoste interferenze, è ammorbidita da incisi infiniti che non sembrano lasciare nulla d’intentato per farci percepire le misteriose sincronie del reale e tutta la vorace ambiguità del vissuto. E in effetti protagonista di essa non è il tempo, ma la durata, il combinarsi e sovrapporsi degli stati di coscienza, il loro simultaneo inserire l’uno nell’altro per entro l’unità quantitativa del reale. Se potessimo darcene una rappresentazione grafica, la prosa di Prisco farebbe pensare a una partitura.

È che senza essere, se non occasionalmente, scrittore di memoria, egli applica nei confronti dei suoi materiali narrativi qualcosa di molto vicino alla tecnica della memoria, tende cioè a cogliere la realtà nel momento in cui si fa, ma allorché è diventata ovvero assomiglia a una realtà ricordata con tutte le stratificazioni, le soggiacenze, le difformità, le smarginature, le derivate psicologiche, le penombre coscienziali introdottivisi nel suo passaggio da fatto a ricordo, da situazione insomma vissuta a impasto memoriale. Nei libri di Prisco coesistono sempre il prima e l’adesso, o meglio l’adesso è riferito di continuo alle elusive tabelle del prima. Se vi si bada, i suoi personaggi hanno sempre l’aria di rileggere la loro esistenza sulle sinossi della memoria.

Si tratta, pensandoci bene, dell’esistenza stessa dei metodi di Prisco. Tutto il vario trattamento cui sottopone le sue storie, tutte le diverse qualità della sua prosa e l’insieme delle strategie formali ch’egli attua fin dal primo concepimento d’un libro non hanno in fondo altra meta. I suoi romanzi più tipici, quelli che meglio lo rappresentano non sono, a conti fatti se non altrettante sinossi della memoria. Ingannevoli sinossi! All’interno di esse, come in un giuoco speculare, i personaggi di Prisco si manifestano o si confessano, si riesaminano oppure si recitano alla presumibile ricerca della propria verità. Ma le verità dei personaggi appartengono, si sa, all’autore e in un’ultima analisi al lettore. Per quel che li riguarda, passate come sono attraverso la logica deformante del ricordo, le loro verifiche assomigliano a un autoinganno, non approdano il più delle volte che a una fenomenologia dell’ambiguità. Un tema ulteriore, per chi volesse interrogarsi ancora sull’antinaturalismo di Priaco; e magari, a questo punto, sul suo stesso naturalismo.

Aldo Vallone

Aldo Vallone

Quotidiano di Taranto 21 dicembre 1984 Con la fantasia gioca lo scrittore Aldo Vallone

«Corriere di Napoli» anno CIV n. 2 Margherita, l’ultima dama di Piazza Aldo Vallone

Più che mai in questo romanzo del Prisco, Lo specchio cieco (Rizzoli Editore), il gioco, sottilmente irridente e divertito, tra realtà e fantasia, punta tutte le sue risorse e si apre ora a squarci autobiografici, ora a dichiarazione d’intenti, ora a confessioni sul mestiere dello scrittore o sull’arte del fabulare. É un gioco che mette sempre a dura prova le capacità narrative, le virtù del creatore di situazioni ed anche, nell’insieme, l’attenzione al reale o ai particolari del reale. La «fiaba», perché non c’è da credere a questo magnifico «bugiardo», è d’impianto pirandelliano: e a Pirandello, anni fa, tentai di riportare tanta parte, e la migliore, dell’odierna narrativa napoletana. V’è il gioco delle parti, c’è la simulazione delle apparenze, v’è soprattutto la lama, sottilissima e affilata, dell’umorismo.

Si tratta di una donna, Margherita Attanasio umile e scialba prima e dopo il matrimonio: non più tale, a vedovanza matura, che su di sé e per sé promuove, non so quanto per civetteria muliebre o per riscatto della sua condizione, l’interesse dei giovani figli del marito e poi, a cerchi più vasti, di altri come Matteo (l’io narrante) o il pittore Braschi. É sempre il cerchio famigliare, caro da un secolo alla narrativa «borghese» italiana (come non pensare, almeno in funzione di prototipo, a Demetrio Pianelli?). La tentazione dell’equivoco o dell’«ambiguo» (la parola-situazione campeggia, ovunque) sfiora ogni pagina del romanzo; ma Prisco ha superato, e di molto, a confronto con le prime prove, il compiacimento di tali tentazioni: se mai, v’è solo, ma alla lontana, un’ombra suggestiva. Il nuovo giunge proprio quando il lettore, aspettandosi un puro intreccio di equivoci, si trova poi dinanzi ad un tale rovesciamento di soluzioni.

Sì, Margherita convive con Biagino, figlio del marito; tenta, o sembra tentare attraverso riflessi contraddittori l’altro figlio, Alberto; persuade ad atteggiamenti confusi ed «equivoci» Matteo e Braschi; ma poi ci si accorge che nessuno di loro cambia e chi cambia è proprio e solo lei, Margherita, che da piatta e informe donna diventa bella, elegante e accattivante: e come se questo non bastasse passa da insipida sottomessa a padrona, sicura e prepotente. C’è un gioco delle parti c’è il divertimento sapiente del narratore, che, sdoppiando la figura, avvolge, coinvolge ed involge capovolgendo ritratto fisico e morale.

Ne intravede i dati Matteo, felice, come narratore della vicenda, di essere riuscito a «ricucire attraverso i vari incontri con lei e il suo ambiente famigliare» e di vedere ormai che «la vita, ogni vita, possiede come la luna, una faccia nascosta, un sembiante segreto», per cui non si può penetrare in questo recinto clandestino senza arrischiare la frustrazione delle scoperte che c’impoveriscono e c’inaridiscono». Si approssima al vero ancor più il pittore Braschi, che coglie nella donna «lo sforzo di trasformarsi in un’altra donna, di dimenticare le sue origini o meglio il suo passato, perchè si è messa con Biagino, che è l’uomo che meno la capisce, perché fa la donna di mondo, la cittadina, e invece resta legata alle sue origini e al suo passato». Più in là va, solo e proprio, Margherita nel confondere verità e menzogna, falsità e realtà: è, nel suo fondo, quello che era o non lo è più? Ma chi potrà mai distinguere personaggio e attore, volto e maschera? Prisco però ha la sua verità e la ripone nelle parole di Elena, donna silenziosa e vigile come lampada  che con la sua tenue luce porta via incubi e sogni deliranti:«Uno scrittore non dimostra, ma rappresenta: forse la tua scontentezza deriva proprio dal fatto che ti sei messo a scrivere più che obbedendo a un’emozione cercando subito un significato in quello che scrivi». Cessa così, anche per il lettore, il «gusto» della vicenda e si riapre l’interesse per l’arte di questo romanziere.

Il romanzo è dentro al grande arco della produzione narrativa di Prisco, la cui snodatura in tempi e modi è, e lo penso ora ancor più decisamente, La dama di piazza (1961). Ma al di là e al di qua di quel punto, marcato solo idealmente, fluiscono condizioni e tempi, temi e proposte (qui, ad esempio, Margherita è posta come «metafora di una certa condizione della donna del Sud»); ma anche, scendendo nei particolari colori suoni compiacenze modulazioni di lingua e stile. Tutto è attorno a Margherita, «dama» anch’essa. Le attenzioni più minute, ma non per questo più indulgenti o compromissorie, sono rivolte a lei: qui, però, ancor più nettamente, proprio per quel cogliere e sottolineare quell’esser «donna», che sempre più donna diviene di sè dinanzi a sè e agli occhi dei famigliari, tutti direttamente coinvolti, e degli amici, pur essi storditi e travolti, o del pubblico romano o dei paesani di San Severino, attoniti o smorti in un paesaggio urbano quanto mai distaccato e sfuggente.

La femminilità, propria dell’adolescente che si scopre donna, ha complice, come accade in ogni romanzo per donne di inquieta età, lo specchio:«Fu un’ispezione muta, minuta e addirittura impietosa. La lastra rifletteva l’immagine di una giovane donna priva di ogni attrattiva…: il corpo fragile nel vestito a lutto e quasi curvo…, lo sguardo spaesato…, i capelli spenti…»; ma poi «istintivamente, cominciò a sfilarsi ad una ad una le forcine», per cui «i capelli con un lieve ondeggiamento si scioglievano cadendo adagio»; e dopo «le si affacciò nello sguardo un sorriso: più che esitante, era, contro la sua stessa volontà, già torbido e vendicativo». É nata una donna non solo diversa, ma il contrario di quel ch’è o s’era reputa di essere o meglio è pirandellianamente altro di sè stessa: i particolari, poi, registrati tutti con studio e assaporati con estrema lentezza, sembrano succedersi per «istinto», come appunto si dice, e senza determinazione: ma è il contrario.

Proprio questi particolari Prisco accarezza con compiacimento, sapiente e attentissimo, sicché può sembrare che la stessa «struttura»‚ che pur vale per sé stessa, con loro si ponga in evidenza e si verifichi. E intanto tempo, natura, caratteri fisici e morali sono, anche qui, colti in decadenza e sotto luce crepuscolare: «grasso e molliccio» o «grasso e flaccido» o «sfinito e svuotato» è il corpo, sempre in «disfacimento» e in «afflosciamento», languido» è il lamento, «grasse» le camelie, là, invece, sale «il fiato» del fiume o soffia «il vento caldo» e risucchia «l’aria alida, calda e polverosa, «stagnante» la pozzanghera e «l’odore marcio»; attorno si muovono personaggi di «annoiata sazietà», dalla «faccia dilavata» e dalla «carnagione smorta»; e poi ovunque «penombra discreta» o «azzurra», «aria tiepida nell’oscurità lattea», «stanze ombrose» e «mobili consunti e d’invecchiate stagioni», «profumo vago di lontani invisibili giardini», e ancora, attorno, «odori indefiniti» da quello «caldo e appiccicoso del caprifoglio in fiore» o ancora «cremoso» a quello delle «violacciocche» e della «pastiera pasquale» in «un vago sentore di putredine» e all’«inconfondibile impalpabile profumo impigliato agli abiti». Ogni dato, insomma, si confonde con gli altri e contribuisce a creare una particolare atmosfera di «giornate spente», nella «desolata solitudine del paesaggio», «che diventa naturale col silenzio e la mancanza del sole». Odori, suoni, colori rifluiscono insieme nel corso del racconto e portano a «scatenare i ricordi».

Nei primi romanzi Prisco è ancora, a mio parere, suggestivamente legato a motivazioni dannunziane; ma dopo, via via, alleggerendosi, giunge a dare nutrimento e pensiero, vita ed azione. L’atmosfera così carica non è fine a sè stessa, genera e promuove, invece, avvolgendoli e spesso ricreandoli, caratteri attitudini comportamenti dei personaggi. Di qui, anzi, taluni veri e propri ripensamenti (come «a penarci bene», «poi, se sarà il caso, spiegherò», «forse il termine è esagerato», ecc.), che valgono come soste di meditazione, talvolta anche nelle sequenze degli aggettivi a teme, o pianerottoli di raccordo nel fluire della narrazione. A questa necessità sovviene anche l’uso assiduo, incalzante di parentesi (un modo che i grammatici ripudiavano): ve ne sono di ogni genere e per ogni scopo: ampie, brevi, essenziali, didascaliche: tutte tendono non solo a dare appoggio al pensiero, ma anche a completare, anzi a rifinire un’azione, un profilo, un sentimento. É il «cantuccio» più autobiografico, sotto il profilo culturale, di Prisco: si contano talvolta due-tre parentesi a pagina: nell’insieme oltre cinquanta valgono a dare segno concreto al momento narrativo. É una caratteristica di Prisco: ogni narratore ne ha di proprie a iniziare da Manzoni, di cui si darà testimonianza in un altro scritto. Né forse altra via si poteva percorrere per un romanzo che tutto rifondendo (anche le evidenti tracce di psicanalisi) ha un suo preciso posto ed avanza una nuova proposta nel romanzo «borghese» d’oggi.

Lo specchio cieco

Lo specchio cieco è un romanzo di Michele Prisco pubblicato nel 1984.

Si propone qui una selezione della rassegna stampa dell’epoca, tratta dai ritagli di giornale conservati dallo scrittore stesso nel suo archivio.

Di alcuni degli articoli proposti è presente la riproduzione e la trascrizione.